Si era udito da lontano già alla sera. Un abbaiare a tratti insistito, a tratti incerto, quasi timoroso, forse lamentoso. In alcuni momenti sembrava trasformarsi in un ululato, ma era solo un’impressione senza seguito. Quella presenza sonora tra le colline ormai addormentate suscitava un vago senso di apprensione, quasi fosse l’annuncio di un evento prossimo ad accadere ma poi misteriosamente rimandato. Noi ragazzi lo avvertimmo chiaramente. Uscimmo nella spianata del cortile in terra battuta. Due pipistrelli svolazzavano ad angolo retto intorno alla luce ingiallita del viottolo in ripida discesa che portava alla casa. Della lontana presenza canina nell’aria non c’era più traccia. Il grosso rospo, che per inveterata abitudine tutte le notti “faceva la guardia” alla nostra porta, era come sempre immobile al suo posto, quasi fosse un nodoso ciocco di legno. Attendeva paziente la inconsapevole preda. La notte scivolò via con le voci della campagna.
Il pomeriggio del giorno seguente, mentre il sole era prossimo al tramonto dietro il tranquillizzante profilo della montagna “dalla testa canuta”, il figlio del mezzadro venne a raggiungere mio fratello e me nel giardinetto che faceva da naturale belvedere alla infinita pianura piemontese che già trasudava impalpabile nebbia. Era eccitato. «Nel cortile c’è un cane, un cane grosso, corre e salta qua e di là, come un matto… forse è un cane da caccia… un Sette-e-mezzo…». Era un Setter bianco a macchie nere. Lo trovammo in piena e irrefrenabile azione. Balzi, giravolte, uggiolii, abbai trattenuti a stento, digrignare di denti, scatti, frenate, corse in tondo a perdifiato, caccia alle galline, irruzioni in mezzo alle oche, inseguimento ai conigli… «questa è la sfrenata gioia dell’essere al mondo, questo è quello che io – cane – chiamo libertà. Questo è quello che voi bipedi umani vi perdete».
Mentre mio fratello era momentaneamente entrato in casa alla caccia di cibarie da dare a quella inarrestabile furia, arrivò, inaspettato testimone, il contadino. Si scatenò l’inferno: urla, imprecazioni, insulti, pedate, maledizioni, bastonate… mentre l’animale, con la coda tra le gambe e facendosi il più piccolo possibile, prendeva il sentiero della fuga tra guaiti e mugolii di represso terrore. Arrivò a segno anche qualche sasso. Io, allibito ragazzino di dieci anni, rimasi pietrificato senza saper dire una parola. Ma non era finita. Sbattendo violentemente, si spalancò la porta di casa e ne schizzò fuori come una furia mio fratello. Rosso in viso urlava qualche cosa contro il persecutore dell’innocuo animale. Si slanciò contro il contadino con tutta la foga che aveva repressa in corpo. Neppure toccava terra. Arrivato a due passi dal suo obiettivo, spiccò il volo. Alzò il braccio destro mirando al mento della vittima designata, che colpì dal basso verso l’alto con un pugno che proprio leggero non doveva essere. L’uomo cadde, tra lo stupore e le grida esterrefatte dei famigliari accorsi a quel chiasso.
L’incidente ebbe un seguito. Mia madre dovette convincere, durante una lunga trattativa, mio fratello a chiedere scusa all’uomo che odiava i cani («i gatti mangiano i topi, i cani non servono a nulla»), dal canto suo l’odiatore si mostrava chiuso in un regale silenzio, la sua famiglia ci guardava storto, il figliolo, ambasciatore incolpevole di tanto subbuglio, si teneva in imbronciata disparte. L’indomani si annunciava temporalesco… Ma alla fine si arrivò a un onorevole compromesso: ci saranno le scuse, ci sarà il perdono, non se ne parlerà più.
Verso mezzanotte, mentre siamo a letto, ci giunge un abbaiare soffuso in ovattata lontananza. «Tornerà?», chiede mio fratello. «Non tornerà», rispondo.