In casa nostra era da sempre sottinteso che ad acquistare il quotidiano fosse còmpito riservato a mio padre. Lo faceva con assoluta puntualità, portando il Corrierone quando rientrava per il pranzo. Questo avveniva senza deroghe, fatto salvo il fatto che si trovasse all’estero. Di solito anche alla domenica, perché il suo studio si trovava due portoni prima di quello di casa, e pur nel giorno festivo una mattutina scappata in ufficio non poteva mancare. Fu così che venerdì 11 ottobre 1963, mentre, come sempre, appoggiava il quotidiano appena acquistato accanto al posto a lui riservato a tavola, il suo volto ci sembrò aggrottato da una smorfia che nessuno dei familiari aveva mai notato prima. Gli occhi apparivano fissi e al contempo lucidi e un poco appannati. La prima pagina del Corriere della Sera riportava un titolo a tutte colonne e a caratteri cubitali: “L’onda della morte”. La prima notizia della tragedia del Vajont entrava in casa nostra.
Le informazioni erano ancora confuse e insicure, anche la dinamica della tragedia era aperta a interpretazioni diverse e contrastanti. Tanto è vero che alcuni quotidiani, tra i quali Paese Sera, titolavano “Crollo della diga” o, come il Gazzettino, parlavano già di tremila morti (saranno più di duemila, tra cui quasi 500 giovanissimi fino ai 15 anni o addirittura ancora bambini).
Il terrificante disastro si era verificato alle 22.39 del giorno 9, quando 270 milioni di metricubi di roccia si erano staccati dal sovrastante monte Toc ed erano precipitati a più di cento chilometri all’ora nell’invaso artificiale che si era formato per la presenza della diga. L’acqua era destinata alla creazione di un lago da sfruttare per la produzione di energia elettrica. L’invaso era però in grado di contenere a malapena circa la metà di quel rotolante volume. Si formò un’onda enorme, che prima si allargò abbattendosi sulle rive fustigandole, poi scavalcò la diga per riversarsi con una folle corsa nella valle del Piave, distruggendo tutto: case, uomini, animali, fabbriche, campi coltivati, manufatti di ogni genere, automobili, strade, linee elettriche… polverizzando in un attimo sogni, illusioni, speranze, iniziative, progetti futuri e certezze finalmente conquistate. Interi paesi vennero cancellati.
Mio padre non parlava. L’enormità della tragedia lo annichiliva. Girava le pagine del giornale, forse alla ricerca di un nome, di una località, di un indizio, di qualche cosa che probabilmente nemmeno lui sapeva cosa fosse. Era sempre stato fermamente contrario alla nazionalizzazione dell’industria idroelettrica, forse anche perché aveva lavorato a lungo alla Edison-Volta, ma i lavori della diga erano iniziati prima del 27 novembre 1962, data dell’arrivo dello Stato in un ambito fino ad allora rimasto ai privati. Non poteva quindi dare colpa dell’accaduto al nuovo “padrone”. Le cose erano ancora troppo confuse, le voci discordanti, le domande non avevano risposta, le ipotesi si attorcigliavano fra loro. Pensava ai suoi amici, a quelli che avevano progettato la diga, a quelli che erano rimasti lassù per settimane a seguire i lavori, e soprattutto a uno, del quale i giornali non parlavano ma che sapeva essere spesso presente sul posto, forse anche adesso.
Seguiranno inchieste, dibattiti parlamentari, commissioni di esperti, mentre, di fronte alla realtà dei fatti – la diga aveva resistito all’immane urto dell’acqua – il dito puntato cambiava obiettivo: non più gli ingegneri costruttori del manufatto ma i geologi che avevano esaminato il monte Toc, e non avevano ravvisato segnali di possibili e improvvisi scivolamenti. Più di un allarme c’era stato, è vero, ma senza concreto seguito. Per mio padre fu una sorta di liberazione. I “suoi” erano innocenti, e se questo non alleviava l’immensità del danno, né il dolore dei sopravvissuti, né ridava la vita a chi l’aveva perduta tra le acque e le rovine di un fiume impazzito, lui poteva continuare ad avere fiducia nel proprio lavoro.