Ho ricevuto e letto una cospicua e problematica dissertazione su «economia e felicità». Involontariamente mi si affacciano alcune personali considerazioni, non so quanto pertinenti. Forse manca una base di partenza condivisa, vale a dire la definizione stessa di che cosa sia la felicità. Forse perché la felicità è indefinibile, in quanto stato dell’animo che si trova a un livello assolutamente personale, uno stato d’animo che (spero) tutti conoscano almeno una volta nella vita ma che non credo siano in grado di realmente comunicare e esprimere. Ritengo che sia uno stato d’animo passeggero, che non dura nel tempo, ma che – quando ci va bene – viene sostituito da altri, come gioia, soddisfazione, appagamento, serenità, autostima. Lo stesso “innamoramento” (forse il più alto grado di felicità) non gode di vita eterna, ma con il tempo – quando va bene – si adagia e si placa nella serenità (è un punto di vista personale e come tale esposto ad ogni critica e confutazione).
Soprattutto non vedo la possibilità di confinare negli angusti e freddi limiti di un punteggio (da 1 a 10) il proprio grado di felicità. La felicità o è 10 o non è: così la vedo io. In ogni caso il proprio “grado” di felicità è in funzione del momento in cui viene posta la domanda. Non solo, dipende anche dal contesto in cui si vive, da che cosa ci capita, da chi ci sta accanto, dal lavoro che svolgiamo, dai familiari che ci stanno intorno, dalle prospettive cha abbiamo, da cosa ci aspettiamo per domani o fra un anno, da un evento fortuito e inaspettato e da altro ancora… Poi, cosa significa una valutazione da 1 a 10? È un classificazione in uso anche in medicina: «Mi dica quanto le fa male, da 1 a 10». Ma ogni individuo ha una sua scala del dolore, come pure della felicità. Inoltre davanti a una domanda “indagatrice” si è portati a dichiarare – magari inconsciamente – il falso, ad apparire quello che non si è, a indurre invida o commiserazione, comprensione o lontananza. Lo si fa spesso nei rilevamenti statistici telefonici, figurarsi quando l’indagatore è davanti a noi e ci chiede lo stato di una realtà tanto intima e imponderabile, o quando ci viene richiesto di compilare un questionario. Che «i soldi non fanno la felicità… ma aiutano» è un vecchio detto spruzzato di sarcasmo, e un po’ di verità la contiene. Ciò è tanto più vero in un mondo dominato dal consumismo e dall’imperativo categorico del “di più” e del non averne “mai abbastanza”. Comunque mi permetto di eccepire il fatto che l’auto nuova possa rendere felici, casomai più semplicemente procura gioia. Una gioia passeggera, perché dopo un po’ l’auto diventa inevitabilmente vecchia e ce n’è certo un’altra che è migliore e sarà perversamente più desiderabile… a quel punto addio gioia, che comunque è solo un surrogato della ineffabile felicità.
Mi rendo conto che la felicità è una componente interna della vita di ognuno, e che quindi solo l’interessato può valutarne il peso (ammesso che tale peso sia valutabile), che può mutare in funzione di mille variabili consce e inconsce… il punto debole, forse, è che poi quelle valutazioni vengono messe in un frullatore comune e se ne ricavi una media nazionale, così torna d’attualità il banale pollo di Trilussa.