scampoli

3. Al mio posto

Che cosa possiamo dire quando ci chiedono «Tu cosa faresti al mio posto ?». La domanda non può avere una reale risposta, perché in sé contiene due termini tra loro non commensurabili: “tu” e “mio”. Rappresentano due entità che nulla o ben poco hanno in comune, essendo il risultato di storie umane totalmente separate, frutto di un’evoluzione biologica, materiale, sociale, famigliare, intellettuale, morale che si è andata evolvendo negli anni entro realtà comunque circoscritte e personali. Una storia che in massima parte è un rovello interiore che nessuno può conoscere, sovente nemmeno lo stesso soggetto direttamente coinvolto. E ogni passo di quel cammino ha avuto influenza sul passo successivo, creando di volta in volta un unicum che – poco o tanto – si differenzia da qualunque altro. Come le impronte digitali o il Dna.

Nella vita pratica si possono dare ottimi consigli («se si brucia una lampadina, cambiala») ma nella vita di relazione umana le cose non stanno così. La vita di ogni individuo è un gomitolo avviluppato e nel complesso irripetibile di fili di differenti origini, anche se alla fine si riuniscono in uno solo, che però è il risultato di tanti percorsi diversi, tra loro indipendenti. Questo è il punto debole di ogni psicoterapia che pretenda di insegnare “a vivere“ nella quotidianità dell’anima dell’individuo. Forse “io” non mi sarei mai trovato in una tale situazione, un poco per il “mio” carattere, un po’ per il carattere di chi “mi” stava intorno (anche lui “portatore” di una diversa realtà evolutiva), un po’ perché certe cose non “mi” sono accadute, un po’ per il “mio” modo di essere, un po’ per il modo di essere degli “altri” con i quali sono stato in contatto, un po’ perché la “mia” esistenza ha presentato determinati avvenimenti, un po’ perché a certi avvenimenti “io” reagisco in un modo e non in un altro che è la manifestazione del “mio” personale essere, così come si è venuto formando… la vita è una serie infinita di “accidenti” che si sommano con gli “accidenti” che hanno caratterizzato ogni singolo rappresentante del mio “prossimo”, vicino o lontano che sia: famiglia, lavoro, amore, svago, salute, malattia, incontri, delusioni, vittorie, certezze, dubbi… Insomma, un immenso coacervo di elementi personali non riproducibili in sé e nel loro contesto.

L’esperienza può solo indicare alcune linee guida, non sempre supinamente percorribili (noi siamo anche istinto, personalità, orgoglio, rabbia, dignità, ribellione, amore, gratitudine, riconoscenza, debolezza…) e non sempre giuste. C’è chi riesce a crearsi una corazza, a sviluppare – almeno entro certi limiti – la capacità di non reagire, di saper aspettare, di “porre tra parentesi”, ma non per tutti è così e non è umano che sia sempre così e sempre in eguale misura. Di fronte al reiterarsi delle provocazioni, dei soprusi, delle falsità, delle prevaricazioni, anche la più impenetrabile corazza alla fine mostra crepe. Soprattutto quando gli attacchi giungono da più persone e da più fronti.

È però a questo punto che la domanda «Tu cosa faresti al mio posto ?» è forse umanamente inevitabile. È una sorta di richiesta di condivisione, indipendentemente da quella che sarà la (quasi sempre inutile) risposta, che per lo più non viene seguita. Infatti la inutile risposta viene data già sapendo che sarà rifiutata, fraintesa, accolta solo in parte o volutamente ignorata. Ma la risposta vuole solo essere, appunto, “condivisione”, perché nei casi migliori è anche offerta di sincero affetto, quell’affetto che non trova altro modo per manifestarsi. Capita di ritenersi più forti di quanto si sia, ma capita anche di ritenersi più deboli. Nel secondo caso si crede di non poter reggere, ma poi – con stupore – si regge. Si cerca aiuto ovunque per rendersi conto, alla fine, di averlo trovato in se stessi. Fino a quando? Spesso per un tempo indefinito, perché il nostro “vissuto” ci ha resi più forti, spesso a nostra insaputa, ci ha resi in grado di affrontare anche questa prova. Guardandoci indietro vediamo quante volte abbiamo detto «non ce la faccio più» eppure siamo ancora qui; «voglio andarmene», ma siamo ancora qui. Qui, perché se ce ne andiamo crolla tutto; qui, perché c’è bisogno di noi; qui perché qualcuno ha bisogno di noi. Qui perché io sono io.

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