Nel 1871 Edward Burnett Tylor scrisse: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. La condizione della cultura nelle varie società del genere umano, nella misura in cui può essere indagata sulla scorta di principi generali, è un argomento che si presta allo studio delle leggi del pensiero e dell’agire umani. Da un lato, l’uniformità che pervade così estesamente la cultura può essere attribuita in larga misura all’azione uniforme di cause uniformi; dall’altro, i suoi vari gradi possono essere considerati come stadi di sviluppo o di evoluzione, ciascuno dei quali è il risultato della storia precedente e si appresta a compiere la parte che gli compete nel plasmare la storia futura.»
Questa è la cultura che possiamo definire “sociale” vale a dire di un esteso numero di persone che ne sono partecipi, che, spesso inconsciamente, la seguono e ne fanno “uso”. Quindi, per esempio, esiste una cultura del lago di Como (pescatori, fabbricanti di reti, cultura culinaria, cultura dei crotti…) e una cultura delle singole categorie di artigiani (ciabattini, muratori, fabbricanti di barche, operai delle fonderie…), di categorie professionali, di categorie di età (studenti – penso ai comportamenti nei confronti delle matricole universitarie – o la cosiddetta cultura giovanile). Anche la moda entra nella cultura sociale, sia pure con la sua aleatorietà: musica leggera, abiti, letture, accoppiamento. C’è anche una cultura religiosa, con la sua venerazione dei santi e le sue processioni. Il discorso sarebbe lungo, ma penso che già da qui ne si sia compresa la sostanza.
Poi c’è la cultura del singolo. E allora la faccenda si complica, perché entra fortemente in gioco l’erudizione, che non è cultura ma più semplicemente l’accumulo di nozioni che di per sé non fanno cultura. Con l’erudizione impariamo ad avere a che fare andando a scuola: date, nomi, battaglie, poesie a memoria, capitali Nazioni, confini, elenchi, misure… L’erudizione è sostanzialmente un esercizio (e una manifestazione) di memoria. Spesso è solamente esibizionismo. E’ fine a se stessa. Certamente contribuisce a fare cultura ma non è la cultura vera e propria. Ne diventa partecipe solo se permette in qualche modo di creare una padronanza interculturale (mi scuso per la tautologia), cioè se chi la possiede è in grado di sfruttare nozioni appartenenti a un ambito specifico al fine di spiegare fenomeni che in prima istanza appartengono a un altro ambito. Per esempio – ma è solo una mia personale considerazione – il ritratto pittorico è stato “fedele” al modello originale fino all’avvento della fotografia. I versi rimati sono stati messi in crisi dal verso libero, quindi dalla prosa. Il cinema ha soppiantato il romanzo. Il calcolatore da tasca ha eliminato – sia pure a livello bassissimo – la conoscenza delle quattro operazioni fondamentali. L’avvento dell’aereo e dell’automobile hanno sminuito il senso del viaggio e dell’esplorazione. L’avvento della televisione (immagini accompagnate da parola parlata) ha fatto regredire la necessità di essere in grado di leggere lo scritto, giornali compresi, e ha generato una sorta di analfabetismo di ritorno.
Personalmente non ho mai ammirato chi sa recitare a memoria l’orario dei treni o i risultati delle partite di calcio. Preferisco chi mi spiega le trasformazioni di una società attraverso il nascere, il convergere o lo svanire di alcuni suoi elementi culturali caratteristici. Che dire dell’espandersi odierno dei vari Facebook o Twitter ? Sono certamente un elemento dell’attuale cultura “sociale”, e contro questi fenomeni non si può fare nulla per contrastarli, anche se la solitudine – quella vera – si espande sempre più, ma l’illusione è esattamente l’opposto. Forse una piccola ribellione può essere rappresentata da certi circoli di persone che hanno – o credono di avere – interessi in comune. Un succedaneo della vecchia osteria o della bocciofila di paese, ma senza quella spontaneità che le caratterizzava.
La cultura può anche spiegare fatti altrimenti non compresi nella loro reale ragione o comunque ritenuti del tutto trascurabili. Un esempio molto banale. Anni fa fu di moda un film, La sporca dozzina, che in lingua originale si intitolava The Dirty Dozen. Ebbene, per il pubblico italiano era semplicemente la storia di dodici soldati da patibolo impegnati in un’impresa disperata. Per gli americani era diverso. Da loro Dirty Dozen sono chiamati i couplets verbali che sotto forma di cantilena si scambiano i ragazzetti del sottoproletariato nero in forma di sfida e nei quali coprono di insulti a sfondo apertamente sessuale le rispettive madri. Quindi non solo, come nel film, dodici individui che per sfuggire alla forca o all’ergastolo sono disposti a tutto, ma qualche cosa di ben più crudele, nefando, che trasuda odio e profondo disprezzo. Quei dodici uomini sono anche il simbolo di tutto ciò. Culturalmente sono molto di più di un manipolo di pendagli da forca.
Eric Hobsbawm ha esaminato la categoria dei “banditi sociali”, il cui epigono è Robin Hood e che arriva fino a Salvatore Giuliano. Tutti aiutati dal popolo, fino al momento in cui commettono l’errore fatale (per Giuliano, la Strage di Portella della Ginestra). Sono un fenomeno decisamente culturale, con implicazioni sociali ed economiche, oltre che politiche. Woody Guthrie scrisse una canzone in cui parlava di Gesù Cristo usando la melodia della ballata su Jesse James, creando in questo modo una perfetta sintesi tra banditismo e religione sociale. Non per nulla sia James sia Gesù vennero messi a morte per intervento di un individuo della loro personale cerchia (probabilmente, uguale “incidente” per Giuliano). Ma se io non so chi era Jesse James, che era un vero bandito e assassino, che l’accostamento è una provocazione, che sullo sfondo vi è un substrato di socialismo, la portata del canto di Guthrie non viene da me colta.
(qui per ora mi fermo)