Nelle Letters, il diario dei suoi viaggi nell’Ovest degli Stati Uniti, il pittore ed etnografo George Catlin così scriveva nel 1832 a proposito degli indiani Mandan: «Da quanto posso dedurre dai loro racconti, una volta furono una nazione numerosa e potente, ma a causa delle continue guerre si sono ridotti al numero di oggi». Un numero esiguo, se ne deduce. George Catlin, animato da sincero amore per “gli uomini rossi”, che ritrasse con ossessiva minuzia in oltre 400 tra quadri e schizzi, quella volta peccò di miopia storica. l’Uomo Bianco già prima di archiviare definitivamente la questione indiana con centinaia di trattati poco o nulla rispettati e il sostanziale annientamento dopo la Guerra Civile, aveva già inconsciamente posto le basi dell’olocausto dei nativi.
Quanti fossero gli abitanti del continente nordamericano allo sbarco di Cristoforo Colomba nel 1492 è oggetto di calcoli e congetture contrastanti. La variabile è di decine di milioni di individui, ma un dato è almeno assodato: verso la fine dell’Ottocento gli indiani presenti nelle riserve degli Stati Uniti erano circa 250 mila. Comunque si consideri la questione, svariati milioni erano scomparsi: uccisi dalle pallottole, dal whiskey di marca più o meno pessima e, soprattutto, da malattie sbarcate nel Nuovo Mondo con gli europei.
Fu uno sbarco silenzioso e invisibile, ma feroce e letale: vaiolo, varicella, morbillo, malaria, influenza trovarono terreno fertile per la loro diffusione inarrestabile in quegli organismi che mai ne avevano sperimentato la presenza e che quindi non disponevano delle difese immunitarie specifiche. Indipendentemente dai rapporti che via via si stabilirono tra Uomini Rossi e Uomini Bianchi, i successivi arrivi degli europei furono immancabilmente seguiti da una diminuzione drastica del numero dei nativi. Già nei quarant’anni dopo lo sbarco di Colombo, devastanti epidemie fecero milioni di vittime nelle isole caraibiche, come ebbe modo di constatare con i suoi occhi il frate domenicano spagnolo Bartolomé de las Casas verso la metà del XVI secolo, e come non mancò di riportare con parole accorate nelle sue relazioni.
Visto in questa prospettiva, anche l’amichevole rapporto di coabitazione che unì il quacchero inglese William Penn con gli indiani Delaware, sancito nel 1682 quasi corollario della nascita dello Stato della Pennsylvania, si tinge dell’ombra di oscuri presagi. Uguale ombra potrebbe offuscare il mito, risalente all’inizio dello stesso secolo, dell’amore tra l’indiana Pocahontas, figlia del capotribù dei Powathan, e il fondatore della Virginia, John Smith.
Nell’area continentale il fenomeno delle stragi degli indiani a causa delle malattie fu particolarmente crudele durante il Settecento e l’Ottocento, raggiungendo punte tra l’80 e il 90 per cento di morti all’interno di una popolazione indifesa e allibita. In fondo, poi non ci sarebbe stato bisogno di sparare, sarebbe bastato attendere. Immigrati in cerca dell’Eden ed eserciti sbarcati dall’Europa, e non solo dalla Spagna ma anche dalla Francia e dall’Inghilterra, uomini di religione, cacciatori, nobili e prostitute, ricchi e straccioni, intellettuali e delinquenti, tutti quanti nell’arco di alcune decine di anni contribuirono a quella silenziosa strage.
I Mandan, tanto amati da George Catlin, scomparvero nel 1837, poco dopo la visita del loro “amico” pittore: furono spazzati via dal vaiolo con oltre la metà della popolazione delle Pianure; da quasi duemila che erano i Mandan si ridussero a meno di 130 individui, dei quali solo 23 erano uomini adulti. Da quelle parti il vaccino contro il vaiolo, che era stato scoperto nel 1796 dal medico inglese Edward Jenner, non arrivò mai. Era invece arrivato e visse a lungo, ospitato per ben 25 anni all’interno della tribù, un bianco, un cacciatore di pellicce francocanadese di nome Ménard, il quale si accasò con una donna mandan e richiamò in quell’area molti commercianti, tra questi un nutrito gruppo della Hudson Bay Company. Fu un via vai continuo di uomini, di animali, di cose di ogni genere. Un rimescolamento quotidiano, al quale non era estraneo il rapporto sessuale e quindi la facilità di contagio interrazziale.
I porti dove attraccavano le navi delle compagnie e dove gli indiani sostavano per giorni in attesa che la concorrenza tra i bianchi facesse lievitare i prezzi delle pellicce, erano un vero crogiuolo di razze, con individui arrivati dai più lontani Paesi. Nei porti nessuna regola igienica veniva rispettata. Malattia e contagio così erano all’ordine del giorno, e i pellerossa, tornando alle loro tribù dopo quei commerci, inconsapevolmente contribuivano alla sterminio della propria gente.
Nemmeno le grandi pianure centrali riuscirono a salvarsi, se tra il 1798 e il 1801 un’infezione da streptococco passò come un uragano tra le popolazioni Sioux, Assiniboine e Cree. Venti anni dopo fu la volta della pertosse, che chiese il suo contributo di vittime nelle Pianure Settentrionali. Il contagio e le epidemie avevano instaurato un circolo vizioso dal quale non si riusciva a uscire e nessun gruppo tribale poteva restarne indenne. La sequenza non conosceva soste e non rispettava nessun luogo, se sul finire dell’Ottocento anche i residenti della riserva di Pine Ridge, South Dakota, dovettero fare i conti con il dilagare della tubercolosi. Il 29 dicembre del 1890, in una livida giornata che minacciava nevischio, il Massacro di Wounded Knee, ancora nel South Dakota, pose ufficialmente fine alla “questione indiana”.
Soltanto all’inizio del Novecento il Governo di Washington prese seriamente in considerazione il problema della salute e delle cure mediche per gli indiani che erano sopravvissuti e che ancora si trovavano sul territorio della Federazione. Nel 1905 venne approvato un primo esiguo stanziamento di 122 mila dollari; contemporaneamente fu condotta un’indagine per valutare la diffusione delle malattie all’interno di quella popolazione: risultò che la patologia più diffusa era la tubercolosi. Si decise di aumentare la somma messa a disposizione, ma ormai il danno era irreversibile. L’Uomo Rosso sarebbe diventato un’attrattiva turistica.
Box 1 – Trecento riserve Nel 1865, finita la Guerra Civile tra Nord e Sud, il governo degli stati Uniti decise di risolvere la “questione indiana” attraverso due vie: quella affidata alle armi dell’esercito e quella che prevedeva di chiudere le tribù entro i confini di aree ben delimitate, le riserve. Quest’ultima operazione venne affidata alla Commissione per la Pace, che nel 1867 riunì a Medicine Lodge Creek (Kansas) le tribù meridionali. Alcune, tra cui Arapaho e Cheyenne e parte dei Sioux, accettarono. La politica delle riserve presentava l’aspetto umanitario di un’esistenza priva di guerre, cibo sufficiente e una prima embrionale assistenza medica. In cambio cancellava lo specifico culturale. Oggi le riserve, con estensioni molto differenti, sono oltre trecento, in gran parte federali e alcune statali. I cittadini statunitensi che dichiarano di avere sangue pellerossa sono più di un milione, ma molti fra loro sono meticci, frutto di rapporti con etnie differenti. Questo ne ha reso più forte il sistema immunitario.
Box 2 – Il “ponte” della glaciazione Secondo diverse teorie il popolamento del continente americano avvenne dodicimila anni fa con il trasferimento di numerosi gruppi di uomini dall’Asia. Questi, approfittarono di un’ultima breve glaciazione che aveva reso percorribile lo stretto di Bering e raggiunsero il Nuovo Mondo. Secondo quanto si legge nell’Handbook of North American Indians dello Smithsonian Institution di Washington, le bassissime temperature avrebbero eliminato diversi agenti patogeni che si trovavano nell’organismo degli uomini che fecero quella traversata e degli animali che erano con loro. Dall’estremo nord dell’Alaska, i nuovi abitanti si diffusero verso il meridione, all’incessante ricerca di un clima più mite, colonizzando in questo modo non solo le Grandi Pianure ma anche la terra dell’America del Sud e le isole caraibiche. Ma all’arrivo degli Europei tutti gli indigeni delle Due Americhe non avrebbero potuto opporre resistenza ai microrganismi di cui da tempo avevano perso la memoria immunologica.
(Corriere della Sera, 2012)