Storia

6c Alberto Zanchetti e l’ipertensione sconfitta

Potrebbe fare parte di uno di quei giochi di società che tengono lontana la noia dall’ombrellone: «Cosa hanno in comune Franklin Delano e una sedicenne di Siena?» Lui, quattro volte presidente degli Stati Uniti d’America, ideatore del New Deal per il riscatto del Paese dopo la crisi del ’29, firmatario dell’entrata in guerra, uno dei tre Grandi della Conferenza di Jalta; lei, ragazzina di gradevole e prosperoso aspetto, con nulla che oggi sia dato ricordare, anonima e dimenticata. Cos’hanno dunque in comune? L’ipertensione. Roosevelt, iperteso di antica data, si arrese al male per un devastante ictus il 12 aprile 1945, entrando direttamente nei libri di storia; la ragazzina il male lo vinse ma restò nell’ombra da dove era venuta.

Destini diversi, separati da una quindicina d’anni e da un abisso riguardo alla conoscenza e all’impegno profuso nei confronti dell’ipertensione. La “nostra” sedicenne ebbe la fortuna di incontrare il professor Alberto Zanchetti, che in quegli anni faceva base all’Università di Siena e che da quando era studente di medicina nella natia Parma si interessava di questa ancora piuttosto brumosa patologia, sulla quale nel 1950 aveva anche redatto la tesi di laurea. La giovane era affetta da ipertensione renovascolare e, al punto in cui allora si trovava, la scienza medica non era in grado di dare soluzioni farmacologiche e nel suo caso richiedeva l’asportazione dell’organo colpito. Così fu fatto. Per diverso tempo il professore seguì la ragazza, che si mantenne in ottima salute. Alcuni anni dopo riecco lo stesso problema in una paziente siciliana, ma nel frattempo la medicina aveva compiuto altri fondamentali passi: questa volta niente asportazione ma un poco cruento impianto di bypass.

Prima della Seconda guerra mondiale dell’ipertensione era nota l’esistenza, anche perché nel dicembre del 1896 sulla Gazzetta medica di Torino era apparso un articolo nel quale il medico Scipione Riva-Rocci illustrava il suo modello di misuratore, con tanto di bracciale pneumatico e indicatore a mercurio. Nel mezzo secolo che seguì la pressione venne costantemente misurata, ma non esistevano armi per contrastarla quando era troppo alta. Si constatava un dato di fatto e lo si esprimeva numericamente, tutto lì. Così se ne andò Roosevelt, così morirono molti anonimi ipertesi: ictus, infarto miocardico, cedimento dei reni… Per lo più nemmeno sapevano di essere a rischio.

La chiamavano «ipertensione maligna», progrediva nel tempo e alla fine portava al collasso di uno o più organi vitali. Questo lo stato delle cose fino ai primi anni ’50, quando vennero messi a punto i farmaci bloccanti gangliari, atti a inibire l’azione di compressione dei vasi sanguigni esercitata dal sistema nervoso simpatico, il controllore delle funzioni corporee involontarie. Una prima vittoria ma certo non un trionfo: erano farmaci di difficile gestione con rilevanti effetti collaterali anche molto pesanti. «Funzionavano bene se il paziente era seduto», ricorda il professor Zanchetti, «e venivano prescritti solo a chi era affetto da ipertensione maligna». Per gli altri il gioco non valeva la candela.

Sottolinea ancora Zanchetti, che quegli anni li visse doppiamente in prima linea, tra i malati e nei laboratori della ricerca: «La rivoluzione che ha reso l’ipertensione trattabile anche quando media o moderata, risale al passaggio tra gli anni ’50 e i ’60, con l’arrivo dei diuretici. Facili da “maneggiare”, ben tollerati, con un bilancio rischio/beneficio molto favorevole per il paziente, costituirono un primo gradino anche per l’impiego dei farmaci che verranno dopo e che dal contemporaneo impiego dei diuretici trarranno beneficio». Azione essenziale del diuretico è quella di eliminare attraverso l’urina il cloruro di sodio (banalmente: il sale da cucina) e con esso l’acqua, riducendo in questo modo la massa liquida circolante e abbassandone la pressione sulle pareti dei vasi. A ruota dei diuretici sono arrivati betabloccanti, calcioantagonisti, inibitori del sistema renina-angiotensina e altro ancora, «farmaci che oggi possiamo modulare tra loro in funzione delle caratteristiche del soggetto in terapia».

Ricorda il professore: «È stata fondamentale la ricerca, anche su modelli animali. Per esempio l’ipertensione renovascolare venne scoperta e studiata dapprima in laboratorio, su un benemerito cane. Si studiavano pure i meccanismi di regolazione della pressione, impegno niente affatto facile, perché a influire sulla pressione arteriosa concorrono in molti: il sistema nervoso simpatico, i vasi periferici, i liquidi corporei, il sale, l’obesità… Oggi, per fortuna, siamo arrivati ad avere le armi appropriate per ognuno di questi attaccanti».

Può sembrare strano, ma la ricerca sulle cure per l’ipertensione non ha avuto vita facile. All’inizio c’era chi la contrastava. Infatti, anche in ambiente medico circolava un vecchio pregiudizio, secondo il quale l’ipertensione non era altro che un meccanismo di compensazione fisiologico e che quindi abbassarla poteva fare male. Per esempio, c’era una teoria che diceva che l’ipertensione dipendeva da un danno primitivo renale e che l’organismo, per mantenere la funzionalità dei reni, ricorreva al trucco di far salire la pressione. Una sorta di terapia autoindotta. Questa idea ostacolò a lungo la ricerca per lo sviluppo di farmaci realmente efficaci.

Quando i farmaci arrivarono, con essi arrivò anche il momento di chiarire una volta per tutte la realtà. Divenne obbligatorio, a partire dagli anni ’60, per tutti i ’70 e oltre, dimostrare attraverso i cosiddetti trial randomizzati (il controllo della pressione di due gruppi di ipertesi scelti a caso, alcuni sottoposti alla terapia altri ai quali veniva somministrato un placebo) come le cose stessero veramente. Risultò con chiarezza che il gruppo al quale era stato somministrato il farmaco era molto meno esposto a danni cardiovascolari. Uno di questi trial (HOT, Hypertension Optimal Treatment), prese in esame 18.790 persone di età compresa tra i 50 e gli 80 anni, e venne coordinato dal professor Zanchetti insieme con un collega svedese. Zanchetti nel frattempo era stato tra i fondatori della International Society of Hypertension, della omologa europea e della rivista Hypertension.

Un tormentone quando si parla di ipertensione sono i suoi valori “ideali”. «La definizione di ipertensione», sottolinea il professore, «è una definizione operativa. Il rischio cardiovascolare ha con l’ipertensione un rapporto continuativo, non c’è un preciso punto di rottura: compito del medico è decidere se intervenire oppure no. I limiti sono cambiati negli anni in funzione dell’evoluzione farmacologica e oggi disponiamo anche di una sorta di pace-maker neurologico che collocato nel seno carotideo ne contiene gli eccessi. Ma vogliamo due numeri ? Eccoli, 90/140». 

Box 1 – Ereditarietà e livelli molto bassi  Alla  ricerca sui geni ha partecipato anche l’équipe del professor Alberto Zanchetti (dal 1985 all’anno della sua scomparsa, Direttore scientifico dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano) insieme con l’università scozzese di Glasgow e quella di Lund, in Svezia.  Il fine? Individuare i marcatori genetici dell’ipertensione. Paragonando un gruppo di pazienti con pressione molto bassa con un altro affetto da pressione molto alta, si è potuto vedere che si differenziano per un gene (UMOD) riguardante la funzione renale. Quel gene è l’agente specifico che ha il compito di produrre la fondamentale proteina renale chiamata uromodulina. La prima parte dello studio si è perciò conclusa con un risultato importante, che promette sviluppi. Adesso si tratta di avviare la fase per la messa a punto di un farmaco specifico.

Box 2 – La ricerca non si ferma. L’allarme ipertensione scatta quasi sempre in funzione dei valori troppo alti. Questo perché, quando la pressione è “naturalmente” bassa, si manifesta con disturbi poco appariscenti, alla stregua di un inconveniente che per lo più implica un senso di stanchezza avvertibile soprattutto nelle ore mattutine, giramenti di testa, senso di spossatezza e un tono dell’umore definibile come svogliato. Nessun problema dal punto di vista cardiovascolare. La ricerca vuole sempre saperne di più. Anche a questo scopo è in corso un trial internazionale, SHOT (Stroke in Hypertension Optimal Treatment), al quale prendono parte una ventina di Stati europei (per l’Italia ancora una volta è presente il gruppo Zanchetti) e la Cina. Saranno tenuti sotto controllo quasi settemila individui e tra gli scopi primari figura proprio quello di appurare le conseguenze che può avere per l’organismo una drastica riduzione del valore pressorio.

(Corriere.it – dicembre 2013)

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