Albert Schweitzer: medico, chirurgo, organista, ammirato interprete di Bach, filantropo, teologo, premio Nobel, filosofo, pioniere della medicina in Africa, creatore di un ospedale e di un lebbrosario, musicologo, scrittore, conferenziere, pacifista, didatta e altro ancora. Fu definito da Albert Eistein «il più grande uomo vivente». Nato in terra tedesca, a Kaysersberg, nel 1875, diventata francese dopo la Prima guerra mondiale, e morto nel 1965 sul suolo africano, a Lambaréné, in un periodo della sua vita affidò la propria materiale sopravvivenza ai dischi che aveva inciso nel 1936. Fu lui stesso ad ammetterlo: «Per anni mi hanno dato di che vivere». In Africa il «dottore bianco» (bianco di pelle e bianco di vestito) dai pazienti veniva pagato in natura: pollame, capre, maiali. Lui, rigorosamente vegetariano, distribuiva i “pagamenti” a chi più ne aveva necessità.
L’omaggio intimamente riconoscente rivolto a quelle lontane incisioni lo scrisse nel 1952, nel corso di una breve e ansiosa corrispondenza con Walter Legge, “signore e padrone” della produzione di musica classica presso la casa discografica inglese EMI-Columbia. Proprio sotto gli auspici di Legge aveva realizzato sedici anni prima alcuni dischi che non erano certo sfuggiti al raffinato orecchio degli specialisti, ma che il normale pubblico aveva lasciato tranquillamente passare senza troppo emozionarsi. Ora, dopo il conferimento del Nobel per la pace, il nome di Schweitzer era sulla bocca di tutti. Moltissimi, ansiosi e incuriositi, avrebbero voluto ascoltare cosa le sue mani sapevano trarre dalla tastiera multipla di un grande organo. Non solo Bach, ma anche Mendelsshon, Franck e Widor, suo secondo maestro, erano sulla punta di quelle dita.
Le lettere inviate a Walter Legge portano date tra il 9 marzo e il 19 novembre di quel fondamentale anno 1952 e vertono su una preoccupazione che stava profondamente turbando il neo-Nobel, ansioso di poter registrare di nuovo, adesso che erano disponibili nuove apparecchiature e nuove rivoluzionarie possibilità tecniche (il nastro magnetico aveva sostituito l’incisione diretta, il microsolco stava spazzando via il 78 giri, si cominciava a parlare di alta fedeltà). Il vecchio “leone” era stanco, ma non demordeva: « Caro Amico, cerco di non pensare a ciò che potreste supporre a causa del mio lungo silenzio. Vi chiedo comprensione. Voi stesso avete potuto constatare durante il mio soggiorno a Londra quanto fossi affaticato. Ho dovuto affrontare il lavoro di ricostruzione del mio ospedale, che mi ha stremato. In questo momento il tempo, il lavoro pressante e la stanchezza mi impediscono di rispondervi. Nessun essere umano dovrebbe affrontare in una sola volta compiti tanto impellenti come i miei». A Strasburgo ha dovuto occuparsi della spedizione di 125 casse di materiale assolutamente indispensabile per il funzionamento del suo ospedale, «e voi non potete immaginare che razza di lavoro sia compilare tutti quei moduli».
Si scusa, ma in un sacco giacciono cinquecento lettere inevase che attendono una risposta immediata. E in quel mucchio c’è anche quella che Legge gli ha da tempo spedito. La sua prima lettera, quella del 9 marzo, finisce con una postilla che apre alla speranza: «Un’infermiera si è gettata dentro quella montagna di corrispondenza e ha recuperato anche la vostra missiva e quelle della casa discografica Columbia».
La verità è che i dischi Schweitzer li vuole assolutamente realizzare. L’ha promesso a Goddard Lieberson, della Columbia americana durante un recente soggiorno a New York. Ha addirittura iniziato con alcune registrazioni in proprio e con l’aiuto del genero, suonando il nuovo grande organo dell’Abbazia di St. Moritz, in Svizzera. Ma si è dovuto fermare perché lo strumento è solo raramente disponibile. Il colloquio con Lieberson gli ha però lasciato rinnovata energia e voglia di fare. Ecco che improvviso nasce il problema, il cruccio che tormenta la sua coscienza: «Credevo che le due Columbia, quella d’America e quella inglese, fossero esattamente la stessa cosa», poi ha scoperto con sgomento che in realtà le cose non stanno in questi termini. Il lavoro che sta portando avanti per la American sarà disponibile anche per la English ? Pare di no. Il progetto, al quale si sta dedicando con mille speranze, sta forse per naufragare ? Si sente quasi un traditore, certamente un ingrato. «La Columbia inglese non deve assolutamente dubitare della mia riconoscenza e deve sapere che per le nuove registrazioni tutto si sistemerà. Non deve assolutamente mettere in dubbio la mia amicizia; vi dovrò sempre ringraziare per aver potuto effettuare alcune incisioni in St. Aurelia, a Strasburgo, nel 1936. Mai lo dimenticherò». E conclude: «Mi sento legato a voi inglesi da vincoli di sincera lealtà».
Per liberare la coscienza da quel peso ricontatterà di persona i grandi capi della Casa americana. Lieberson si mostra comprensivo con il Nobel, forse anche in omaggio alla sua fama ormai planetaria; si rende conto che ostacolarlo sarebbe una sgradevole pubblicità per tutto il Gruppo. Finalmente Schweitzer ottiene che il sospirato “passaggio” dei nastri abbia luogo. Ogni sua registrazione sarà messa a disposizione di entrambe le Columbia. Trionfante lo comunica a Legge: «Sono riuscito a far capire alla American quanto mi abbia turbato sembrare un ingrato nei vostri confronti e così sono riuscito a ottenere che tutti i dischi registrati per gli americani saranno anche della English, che potrà tranquillamente pubblicarli». L’entusiasmo è incontenibile, e lui ci ha preso gusto: «Voglio registrare ancora e ancora». I dischi furono realizzati e oggi li troviamo in compact disc.
Box 1 – Un film mediocre Nel 1952 in Francia venne girato un film su Albert Schweitzer, nel quale tutto è in funzione del momento di massima commozione: quello finale (al quale si rifaceva il titolo, anche nell’originale). È quando a causa del primo conflitto mondiale il dottore è costretto ad abbandonare per la prima volta Lambaréné. Altra sequenza di grande pathos è il momento in cui Schweitzer deve affrontare l’operazione di appendicectomia per salvare un paziente: il futuro suo e dell’ospedale dipenderà dalla sopravvivenza del malato. In Italia il film venne proposto con il titolo È mezzanotte dottor Schweitzer. Interpreti principali Pierre Fresnay e Jeanne Moreau. Non fu apprezzato dalla critica, che lo giudicò troppo strappalacrime; in realtà si concedeva molte libertà, soprattutto agiografiche, allo scopo palese di “colpire al cuore” gli spettatori. Non mancavano i momenti al pianoforte alla luce della Luna.
In realtà Schweitzer stesso, nonostante fosse sempre stato poco disposto all’autocelebrazione, già nel 1931 aveva dato alle stampe un libro che riteneva chiarificatore delle sue scelte, Aus meinem Leben und Denken (La mia vita e il mio pensiero, ed. Comunità). Nel lungo scritto elaborava il concetto di «pensiero elementare», quello che «muove dagli interrogativi fondamentali del rapporto dell’uomo con il mondo» e nel quale si trovano le radici stesse del suo impulso medico/filantropico.
Box 2 – Non punizione divina ma invisibile bacillo Nel Vangelo di Luca si legge: «Si trovava egli in una di quelle città, ed ecco un uomo pieno di lebbra; veduto Gesù, si prostrò con la faccia a terra supplicandolo: “Signore, se vuoi, tu puoi mondarmi!”. E Gesù, stesa la sua mano, lo toccò dicendo: “Lo voglio, sii mondato!”. Subito sparve da lui la lebbra». Anche questo episodio, riferito da due evangelisti – oltre a Luca anche Matteo – con circostanze e parole simili, spiega perché il morbo di Hansen, come è anche chiamata la lebbra, sia contornato da un alone nel quale si fondono terrore e impalpabile misticismo religioso: la malattia, causata dal batterio Mycobacterium leprae, è vista come punizione voluta da Dio, e quindi, di fronte alla umana impotenza, guarisce solo per intervento divino.
Nella cultura cattolica la lebbra ha sempre occupato una posizione archetipa e un significato paradigmatico, uscendo dall’ambito strettamente medico per entrare in quello della metafora. Può essere un buon esempio il romanzo breve del cattolicissimo François Mauriac, La baiser au lépreux (Il bacio al lebbroso) del 1922, nel quale della lebbra non vi è traccia ma vi è la malattia e la redenzione. La lebbra intesa non come male del corpo ma dell’anima.
Nel Medioevo sorsero i lebbrosari per isolare i malati dal resto della popolazione, ma sappiamo anche che gli infetti non erano totalmente banditi dalla vita pubblica, se nel 1174 Baldovino IV, tredicenne e lebbroso, venne accettato quale erede del padre e salì sul trono di Gerusalemme. Il XIII secolo fu quello di massima diffusione endemica della lebbra in Europa, portando alla persecuzione dei malati con l’editto di Poitiers di Filippo V del 1321. Per secoli venne considerata malattia ereditaria e punizione divina, fino a quando, nel 1868, il norvegese Gerhard Armauer Hansen dimostrò che era causata da un batterio, indicato con sigla BH, scoperto all’interno di un nodulo cutaneo di un malato. Presumibilmente il contagio si ha per contatto diretto e prolungato con un soggetto infetto, il che spiegherebbe almeno in parte l’apparente ereditarietà.
Nel 1969 due ricercatori, Piero Sensi e Maria Teresa Timbal, misero a punto una nuova classe di antibiotici, le rifamicine, che si sono dimostrati efficace cura specifica. Negli anni più vicini l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha valutato in vertiginoso calo i casi di malattia, passando dai 12 milioni degli anni ’80 alle 249mila unità del 2008. Nel mondo sono attivi numerosi lebbrosari, 547 dei quali gestiti dalla Chiesa cattolica.
(Corriere.it)