«Al mio miglior amico»: è la dedica scritta da Petr Il’jč Čajkovskij sulla partitura della sua Quarta sinfonia, eseguita per la prima volta a Mosca il 22 febbraio del 1878. Il “miglior amico” in realtà era una distinta signora sulla quarantina, vedova di un ingegnere diventato ricco con la costruzione delle ferrovie, madre di undici figli avuti dal marito più un’altra fuori dal matrimonio, Liudmila detta Milochka. Il marito era morto per un attacco di cuore quando aveva saputo che la moglie lo tradiva. La signora era di buona cultura e criticabile gusto nell’arredamento, amante del bel viaggiare e della musica ed era spassionata ammiratrice di Čajkovskij, la cui arte, così gli scrisse, «rende la vita più facile e gradevole». Pronubo al loro contatto, avvenuto nel 1876 per lettera (dopo poche missive di circostanza, la vedova aveva ora chiesto al compositore una foto con dedica), fu un allievo del Maestro, Iosif Kotek, un violinista assunto da Madame su consiglio del direttore del conservatorio di Mosca, Nikolai Rubinstein, perché la accompagnasse mentre lei suonava il pianoforte.
La vedova si chiamava Nadežhda von Meck e per Petr Il’jc costituì un “compagno” insostituibile e comprensivo con cui parlare della musica, della vita, della religione, dei dolori, delle ansie, dei suoi personali “fantasmi”, quelli che lo perseguitavano fin dall’infanzia, al punto che l’amata governante Fanny quando era ancora piccolo lo aveva definito «bambino di vetro». Petr restò sempre fragile, timido, ipersensibile, timoroso del mondo, con una dolente intelligenza che non era in grado di sorreggerlo nel mare dell’esistenza – “il Fato”, come lui lo avrebbe chiamato e che lo ossessionava – e con la marea montante dell’omosessualità, già manifestatasi durante gli anni degli studi nei confronti dei compagni. Ci saranno periodi di profonda depressione, altri in cui la creatività sembrava scomparsa, altri dominati dal bere.
Il rapporto con Nadežhda durò quattordici anni, iniziato in forma stabile da lei con la richiesta di una fotografia, per finire, dopo migliaia di lettere, nel 1890: improvvisamente e senza ragione. Non si incontrarono mai, se non una volta, ma per caso e senza scambiare parola, a Brailov in Ukraina nel 1879. Fu nel corso di una passeggiata. Alcune volte si videro da lontano.
Lei quasi subito gli elargì un vitalizio, ma restarono fedeli al proposito iniziale espresso, in una lettera del 16 marzo 1877, anche da Čajkovskij a complemento della considerazione che tra le cose che li univano c’era la misantropia: «Da tutto ciò Lei può facilmente capire che non sono affatto sorpreso che, benché innamorata della mia musica, Lei non sia ansiosa di incontrare il suo creatore. Lei teme di non trovare in me quelle qualità ideali che mi sono attribuite dalla sua immaginazione. Lei ha certamente ragione. Sento che a una conoscenza più ravvicinata Lei non troverebbe una totale corrispondenza, una completa armonia, tra il musicista e l’uomo sognato».
Da qui quel gioco a rimpiattino, quell’inseguirsi senza prendersi, sia in Patria sia all’estero, Italia compresa, che faceva sì che quando lui arrivava lei fosse già partita, che lei gli offrisse ospitalità nelle sua dimora di campagna a Brailov badando di non esserci. Neppure il legame di parentela instauratosi più tardi – un figlio di Nadežhda sposerà una nipote di Petr – imporrà una sia pur episodica tregua a questa manfrina. Si scrivevano parlando di musica: lui amava Mozart e lei no, entrambi non apprezzavano Wagner e i tedeschi, lui le inviava le sue creazioni ed entrambi indicavano la Quarta sinfonia come «la nostra» e per lei corredò la composizione con una prolissa spiegazione di ciò che aveva inteso rappresentare. Lui la tenne puntualmente aggiornata sulla nascita del Concerto per violino: «Il primo movimento ora è pronto. Domani proseguirò con il secondo. Da quanto mi si è aperta la giusta ispirazione non ho più smesso». Un giorno le scrisse: «Un famoso attore una volta disse che era solito scegliere il volto di uno spettatore e poi di recitare per quella persona. Io compongo per lei, Nadežhda». Parlavano anche di religione, di politica, della guerra in corso contro i turchi, della natura, dei loro viaggi, delle città che visitavano e tanto altro ancora.
La misoginia, la timidezza, il “Fato” pesarono sull’animo di Čaikovskij, ma soprattutto a pesare fu l’omosessualità, con una lunga serie di “amici” e di “visioni” materializzatesi nello scorrere della vita: amici, colleghi, conoscenti, ragazzi che cantavano per le strade d’Italia, il fedele servitore, gli allievi del Conservatorio, l’adorato nipote Bob… A quell’epoca in Russia l’omosessualità era definita «bestialità» e punita dall’articolo 995 del codice: si poteva finire in Siberia. In realtà l’ostracismo non valeva per tutti: i nobili giravano l’Europa con il proprio codazzo di “ospiti”, ostentavano le proprie particolari preferenze sessuali, mentre lo Zar chiudeva un occhio.
Petr frequentava quel mondo, veniva da una famiglia ricca e importante ma non era di sangue blu, quindi soffriva l’esacerbante disagio di una condizione che socialmente si sentiva costretto a nascondere. Aveva due fratelli, tra loro gemelli, Anatoly e Modest, quest’ultimo anch’egli omosessuale, e una sorella che amava profondamente, Aleksandra detta Sasa, mentre in lui si celava una componente che potrebbe essere definita materna.Di fronte alla ineluttabile realtà del suo essere, Čajkovskij cercò due volte una via di fuga, dopo avere respinto terrorizzato il sentimento che la sorella del cognato, Vera, mostrava per lui. Più persistente fu il rapporto con la cantante Désirée Artȏt, ma dopo alcune schermaglie la diva si unì con il baritono spagnolo Marino Padilla.
Il Fato però aveva in serbo il folle amore di un’allieva del Conservatorio, Antonina Miljukova. Il momento era propizio: il “compagno” di Petr, Vladimir Silovskij, si era sposato e il compositore era alle prese con lo snodo centrale del suo capolavoro Eugenij Onegin, là dove Tatjana confessa per lettera il suo amore allo spregevole Onegin. Anche Antonina si era svelata per lettera. La coincidenza lo impressionò, e le rispose pure per lettera. Poi Čajkovskij incontrò la giovane e il 18 luglio 1877 la sposò nella chiesa di San Giorgio a Mosca, con l’approvazione di Anatoly e la disapprovazione di Modest. Partecipò alla cerimonia in trance e fu sul punto di svenire. Aveva accettato quel passo per il bene della famiglia. A Modest, nell’autunno del 1876, aveva scritto: «Da oggi mi preparerò seriamente al matrimonio. Ritengo he le nostre inclinazioni siano il più grande e insuperabile ostacolo alla felicità: dobbiamo combattere strenuamente la nostra natura. […] Farò tutto il possibile per sposarmi questo stesso anno, ma se non troverò il coraggio per farlo, cercherò di rinunciare alle mie abitudini».
Più tardi, dopo la comparsa di Antonina nella sua vita, ne informò Nadežhda, mostrando tutta la propria perplessità: «Vivere fino a 37 anni con innata antipatia per il matrimonio, poi trovarsi costretto dalle circostanze a un fidanzamento – e per di più senza provare la minima attrazione per la promessa sposa – è una situazione veramente difficile». Però ammetteva che la ragazza era graziosa. Aggiunse: « Le ho di nuovo spiegato [ad Antonina] che, a parte un sentimento di gratitudine per il suo amore, per lei non provo nulla»; poi confessava di essere consapevole che la loro unione sarebbe finita in tragedia.
L’unione durò tre mesi. Già la prima notte trascorsa nello stesso letto (la prima gli sposi la passarono sul treno che li portava a Pietroburgo) fu un incubo segnato da lacrime. Seguirono angoscia, tristi presentimenti, depressione annichilente, ripensamenti, desiderio di morte, rifugio nell’alcol e un tentativo di suicidio tra le acque gelate della Moscova.
Petr non solo non amava Antonina: la trovava ripugnante, sentiva il desiderio di strangolarla e disprezzava i suoi parenti. La giudicava ignorante. Non riusciva più a lavorare perché la sua vita era spezzata. La abbandonò, aspettando a lungo il divorzio, che non arriverà mai, mentre lei chiedeva soldi e diceva di avere avuto tre figli. Antonina tornerà più volte nel fiume della corrispondenza con la fedele Nadežhda. La moglie veniva definita da entrambi “quel certo personaggio”, mentre Čajkovsky confessava «la mia salvezza la devo alla sua [di Nadežhda] amicizia» e «ogni nota che sfocia dalla mia penna d’ora in poi sarà a lei dedicata». La “nostra Sinfonia” stava prendendo forma.
L’improvvisa e inaspettata fine del rapporto epistolare arrivò nell’ottobre 1890 : «Addio mio caro, incomparabile amico. Non dimentichi chi prova per lei amore infinito». Il compositore restò “orfano” di un’anima verso la quale sentiva l’urgenza di aprirsi, di mostrarsi per quello che era o che riteneva di essere. Invecchiò visibilmente. Scrisse un ultimo capolavoro, la Sesta sinfonia, Patetica (il nome gli fu suggerito da Modest) dedicata all’adorato nipote Bob. Poi morì. Ufficialmente per colera. Aveva 53 anni ed era il 6 novembre 1893.
Box 1 – Una forma da psicanalisi Čajkoskij era un grafomane. Poteva scrivere per due-tre ore ogni giorno, soggiogato da un’irrefrenabile esigenza, una indomabile mania compulsiva. Nell’arco della giornata poteva produrre fino a 18 lettere, e più di una poteva avere lo stesso destinatario. Lo testimonia la sterminata corrispondenza con Nadežhda von Meck, ma anche una pletora di missive con altri destinatari, tra i quali figuravano i familiari, ma non solo loro. Probabilmente era un modo per esorcizzare il proprio disagio esistenziale, o comunque per cercare di ovviare alla sua misantropia e alla paura che provava nei confronti della gente e del mondo governato dal Fato. Una specie di autoanalisi psichiatrica durante la quale Petr esponeva sentimenti che la società gli impediva di manifestare in altri modi. Particolarmente importanti sono le lettere del periodo 1876-1878: gli anni della crisi susseguente al disastro del matrimonio. Una vera seduta psicoanalitica per corrispondenza.
(Corriere della Sera)