Nel 1961 fu pubblicato il primo LP di Bob Dylan, ventenne astro nascente del panorama musicale statunitense. Nelle note di copertina si sottolineava come nel febbraio di quell’anno il ragazzo fosse andato a fare visita a Woody Guthrie, ricoverato presso il Greystone Park Hospital, nel New Jersey. A quell’omaggio Dylan farà sempre riferimento quale credenziale di “autenticità”. Universalmente riconosciuto “mostro sacro” del folk revival americano, Guthrie era da tempo condannato e stava lentamente morendo.
Il 16 maggio del 1952 lo avevano accompagnato al Kings County Hospital di New York. La sera prima, con la bava alla bocca e gli occhi allucinati, fuori di sé, brandendo un paio di forbici, Woody aveva percosso la moglie Marjorie e terrorizzato i loro tre bambini. Culmine di una situazione che da tempo stava degenerando. Era arrivata la polizia. Al Kings County programmarono una cura per disintossicarlo dall’alcol. La cartella clinica faceva riferimento a difficoltà di eloquio e a turbe sessuali che coinvolgevano la moglie. Il 5 giugno venne dimesso. Il 14 manifestò propositi di suicidio. Era in stato confusionale e non sapeva dove si trovasse. Intervenne nuovamente la polizia e fu portato al Bellevue Hospital, dove la diagnosi parlò di schizofrenia. Un dottore confidò a Majorie: «È grave. Non sappiamo cosa fare». Il giorno 15 lo rispedirono a casa e il 16 eccolo di nuovo al Kings County, dopo avere aggredito i famigliari. Lui se ne rese conto: «L’alcol mi distrugge. Ho preso a pugni i ragazzini e Marjorie». Per mesi invocherà perdono.
Fu poi la volta del Brooklyn State Hospital, dove stavano sperimentando una pesante terapia a base di insulina. Forse poteva funzionare. Nella cartella clinica si parlava di una persona che dimostrava molti di più dei suoi quarant’anni, poi di apatia, di incapacità di restare seduto, di movimenti improvvisi e inconsulti, repentini e infine di lunghi silenzi e di smorfie. Meglio rimandare la diagnosi definitiva dopo ulteriori esami. C’erano già le indicazioni che avrebbero portato alla còrea di Huntington, ma il medico non ne aveva mai incontrato un caso.
Si decise di non avviare la terapia insulinica ma di sottoporre il problema a un consulto di neurologi. Woody scrisse all’amico Pete Seeger, compagno di musica e di lotta: si sentiva in prigione, con sbarre alle finestre e porte chiuse da lucchetti. E malati in coma che rantolavano e si lamentavano. Scriveva lettere su lettere. Lettere che mai avrebbe inviato. Molte erano rivolte a Marjorie. «Non sento dolore fisico; ma le mie braccia, le mie gambe e le mie mani e i miei piedi… tutto il corpo appartiene a un altro». Il 3 settembre 1952 i neurologi emisero la sentenza, vergandola in lettere tutte maiuscole: COREA DI HUNTINGTON. Si trattava di un caso molto chiaro: così era scritto. Còrea in greco significa danza.
Guthrie non lo seppe subito. Lo stesso spietato male aveva ucciso Nora, sua madre. L’infermiera alla quale chiese informazioni fu evasiva, aumentando la sua preoccupazione, la sua ansia, il suo desiderio di finalmente sapere. Quell’incertezza lo consumava, si sentiva sull’orlo di un precipizio, solo scrivere riusciva a dargli conforto. Decise che il divorzio da Marjorie era ormai inevitabile. Credeva ancora che la sua situazione fosse tutta colpa dell’alcol; lo disse a un dottore, il quale non espresse opinioni. «Mi sento pieno d’alcol fino alle orecchie», scrisse. «Mi sento sprofondare». Sognava di poter tornare a disegnare i suoi pupazzi, di scrivere un poema.
Il 12 settembre, davanti allo specchio del bagno, osservò attentamente la propria immagine e vide che era come quella della madre, pochi giorni prima che morisse: la faccia contorta da smorfie continue, le braccia penzolanti, le mani che si agitano senza un attimo di sosta, tutto il corpo in costante e frenetico movimento. Un burattino impazzito. Lo assalì il terrore che potessero vederlo: «Tutti mi domandano di cosa sia morta mia madre. Mia madre è morta di Huntington… non è l’alcol che mi sta uccidendo. Cosa mi succederà ?». Così per alcuni giorni. Morjorie andava a trovarlo e anche il fedele Jack Elliot, suo indiscusso “erede”, fino a quando – finalmente – seppe la verità. Era una mattina di settembre del 1952. Gli venne comunicato che il suo cervello stava «lentamente morendo». Rifiutò di sapere i particolari. Il 22 settembre tornò a casa. Morirà il 3 ottobre del 1967.
Piccolo, segaligno, con chitarra, armonica e a volte violino, forte di una straripante creatività rabelaisiana e di uno spirito alla Mark Twain, con una voce di estensione ridotta ma caratterizzata dall’inconfondibile accento dell’Oklahoma, Guthrie era stato vagabondo sui treni merci, bracciante, animatore di programmi radiofonici, autore di una rubrica su giornali di Los Angeles e di New York, disegnatore, pittore di murales, comunista, radicale, rivoluzionario, critico, polemico. Aveva composto centinaia di canzoni: sulla tempesta di sabbia che aveva messo in ginocchio l’Oklahoma, su Sacco e Vanzetti, sui fuorilegge e su Gesù Cristo, sul miraggio della Terra Promessa in California, sui massacri per mano dei crumiri, sui cowboy, sui minatori, sugli operai, sui sindacati, sugli emigranti…
La sua This Land Is My Land corse il rischio di diventare l’inno nazionale degli Stati Uniti. Compose per il New Deal di Roosevelt e canzoncine per bambini. Non si lasciò mai catturare dal mondo dell’intrattenimento e i suoi guadagni furono sempre miseri. Quando registrò per la Libray of Congress di Washigton numerosi 78 giri autobiografici, curati dall’etnomusicologo Alan Lomax, ricevette come compenso una pinta di whiskey. Nel 1967 il Ministero degli Interni gli conferirà un premio per l’ecologia.
Aveva scritto una picaresca autobiografia (Bound for Glory, tradotto in Italia dall’editore Savelli, Questa terra è la mia terra) e una raccolta di pezzi brevi e disegni sparsi (Born to Win). Amava il poeta romantico scozzese Robert Burns. Aveva partecipato alla Seconda guerra mondiale, imbarcato su una nave mercantile nel Mediterraneo. La nave era stata silurata e con l’amico Cisco Houston aveva raggiunto la Sicilia, dove aveva capito cosa fosse la mafia. La sua chitarra inalberava la scritta: «Questa macchina uccide i fascisti». Aveva racchiuso su due 78 giri la storia del protagonista di Furore di Steinbeck, perché «non tutti hanno i soldi per andare al cinema a vedere il film di John Ford, ma tutti hanno orecchie per ascoltare».
Era nato il 14 luglio 1912 a Okemah, una boomtown del petrolio in Oklahoma. Il padre Charley gli aveva dato il nome di Woodrow Wilson, in onore del candidato alla presidenza per il Partito Democratico. Nel 1945 si era sposato in seconde nozze con Marjorie Mazia. Scrisse: «Ho sentito dentro di me una tempesta di parole, che mi basterebbero per scrivere centinaia di canzoni e centinaia di libri».
Box 1 – Un giorno in campagna Era più o meno l’anno 1858 quando un ragazzino in compagnia del padre, illustre medico, stava compiendo una passeggiata nella campagna di East Hampton, nell’area di New York. Si imbatterono in due donne, madre e figlia, dalle movenze burattinesche e con il volto deformato da incessanti smorfie. Fu la scintilla che avrebbe indotto il ragazzino, George Huntington (1850-1916), già a quell’età e poi, laureatosi in medicina, per tutta la vita, a occuparsi di quella «strana» malattia, che chiamerà «còrea ereditaria» e che in seguito prenderà il suo nome. Ne descriverà i sintomi con assidua precisione e ne individuerà alcune caratteristiche: la trasmissione ereditaria senza salti di generazione; la tendenza alla follia e all’infermità mentale in generale, con sovente l’istinto al suicidio; la comparsa dei sintomi per lo più in età intorno ai quarant’anni. Nell’aprile del 1872 pubblicò sull’argomento un primo fondamentale e documentato articolo, punto focale di ogni successiva ricerca.
Box 2 – Marjorie, dalla danza alla medicina Dopo la morte di Guthrie, Marjorie, che era stata ballerina con la mitica Marta Graham, dedicò la vita ai malati e alla ricerca sulla malattia che aveva ucciso Woody. Fondò il Comitato contro la Malattia di Huntington (oggi: Huntington’s Disease Society) e si gettò nello studio e nella ricerca, raggiungendo una profonda conoscenza nell’ambito delle degenerazioni genetiche del cervello. Tra l’altro divenne membro onorario del Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Scienze Mediche ed entrò nella Società di Neuroscienza e nella Commissione per la Ricerca sulla Còrea di Huntington. Fu nella commissione medica dello stato di New York. Girò il mondo, tenendo conferenze e seminari aventi per oggetto la malattia, allo scopo di sensibilizzare le famiglie e di indurre gli studenti di medicina a dedicarsi allo studio sulla degenerazione delle cellule cerebrali. Diceva: «Il mondo della danza è lontanissimo da quello della medicina, ma entrambi si basano sulla comunicazione tra persone». È morta nel 1983.
(Corriere.it)