A meno di due anni dalla scomparsa di Sergiu Celibidache e in occasione del suo centenario, la EMI ha deciso di pubblicare la prima edizione “autorizzata” (autorizzata dagli eredi del grande e scontroso Maestro) di un gruppo di incisioni affidate alla sua bacchetta e alla testa della Filarmonica di Monaco, il gruppo che diresse dal 1979 al 1996, anno della morte.
In concreto si tratta di 11 compact-disc con musiche di Haydn, Mozart, Beethoven, Čaikovskij, Schumann, Debussy, Mussorgskij, Ravel e Wagner. Un evento discografico di primo piano, dal momento che in vita il mitico “Celi” – classe 1912, nato a Roman, in Moldavia – non fece mai mistero della propria insofferenza (se non addirittura avversione) per la registrazione sonora. E si comportò di conseguenza. Tanto è vere che le incisioni da lui concesse al pubblico degli utenti del disco sotto qualsivoglia forma, si possono contare sulle dita di una mano: la prima nel 1948 con i Filarmonici di Berlino, poi altre tre rispettivamente degli anni 1948, ’53 e ’78. Poi qualche video. Tutto il resto che fino a oggi era in circolazione era in qualche modo “pirata”.
Ha scritto il figlio del Maestro, Serge Ioan, nelle note che accompagnano la realizzazione della EMI: «È universalmente risaputo che mio padre si è sempre rifiutato di affidare le sue interpretazioni ai mezzi di registrazione sonora e di divulgarle, poiché era convinto che il suono si possa “provare” o “vivere” soltanto nell’ambiente originale in cui viene creato. Questa convinzione è valida ancora oggi.»
Seguono le ragioni -mutuate dal pensiero paterno – alla base di questa pervicace convinzione. Tra le altre «una registrazione sonora non sarà mai musica, e non potrà mai sostituire l’esperienza genuina e diretta (…). Il tempo di un brano non dipende dalle indicazioni metronomiche che si trovano nella partitura, ma da altri criteri stabiliti sia dalla partitura stessa sia dall’acustica della sala (…) La registrazione dal vivo di un determinato evento musicale ne distrugge progressivamente la spontaneità: a ogni ascolto diventa più difficile rendersene partecipi». Più sbrigativamente, il “Vecchio” diceva che quelli della registrazione erano «suoni meccanici». E tanto gli bastava per dire NO.
Nonostante ciò, Serge Ioan e la madre hanno deciso di dare il consenso alla realizzazione di una serie discografica dedicata al congiunto per bloccare il mercato “pirata” («L’opera di mio padre non viene solo depredata da questi “pirati” ma anche divulgata con una qualità sonora talmente scadente da creare un’impressione orrenda dei suoi concerti»); però per non venire del tutto meno ai ferrei principi dello comparso («Il guadagno ottenuto con i mezzi di registrazione sonora è contrario alle regole di mio padre») il ricavato andrà a una neonata Fondazione Celibidache, il cui scopo principale sarà «aiutare gli studenti a sviluppare un rapporto con la musica suonata dal vivo».
L’ostracismo di Celibidache nei confronti della registrazione e riproduzione sonora – una realtà che ormai da decenni è parte integrante della cultura del nostro tempo e che all’atto della nascita del geniale Celi esisteva, per raggiungere nell’anno della sua scomparsa livelli di eccellente raffinatezza – ci appare materialmente eccessivo anche se filosoficamente rispettabilissimo. Tanto più rispettabile nella sua inalterabile coerenza se si pensa ai suoi colleghi che di quel mezzo tecnologico hanno fatto strumento per la creazione di immense fortune personali, ai limiti dell’autolesionistica mercificazione.
Prima di arrivare a certi eccessi, altri, anche più “vecchi” di Celibidache, avevano mostrato di apprezzare almeno alcuni aspetti del disco e del suo intelligente impiego. Leggiamo infatti nelle Cronache della mia vita di Igor Stravinskij: «(…) firmai un contratto che mi legava per molti anni con la grande casa fonografica Columbia, per la quale avrei dovuto incidere (…) come pianista e come direttore d’orchestra le mie composizioni. Tale lavoro mi interessava molto, perché così (…) avevo la possibilità di precisare e di fissare esattamente le mie intenzioni [di compositore]».
Prosegue: «Questi dischi (…) hanno quindi l’importanza di documenti che possono servire di guida a tutti coloro che eseguono la mia musica. Purtroppo ben pochi direttori se ne sono serviti (…). Non è stupefacente che al giorno d’oggi, essendosi trovato un sistema sicuro e alla portata di tutti, per conoscere esattamente come l’autore vuole che la sua opera sia eseguita, ci sia ancora chi non ne voglia tenere conto? (…) Non rimpiango un solo momento per aver speso il mio tempo e le mie forze in tale lavoro. Esso mi diede la soddisfazione di sapere che tutti coloro che ascoltano i miei dischi si accostano alla mia musica senza che il mio pensiero sia deformato, per lo meno nei suoi elementi essenziali.»
Certo, Stravinskij (che era per prima cosa un compositore e solo per necessità e un po’ per sfizio personale, un esecutore) sentiva profondamente quel problema che è proprio di chi scrive musica sul pentagramma: la inderogabile necessità di lasciare a un “tramite” (l’interprete) il compito di rendere di fruizione comune quello che egli ha creato nella sua mente. Da qui il costante timore che il suo pensiero artistico-espressivo venga modificato da un estraneo, se non addirittura stravolto. Infatti in precedenza Stravinskij aveva detto che «la capacità dell’esecutore si misura proprio in relazione alla sua facoltà di vedere ciò che in realtà si trova nella partitura e non secondo l’ostinato intendimento di cercare quello che egli amerebbe ci fosse». Da qui l’invidia per «pittori, scultori, scrittori, che comunicano direttamente con il loro pubblico senza ricorrere a degli intermediari»: gli interpreti appunto, che egli arriva a definire «traduttori-traditori».
Ma se Stravinskij apprezzava nell’incisione sonora sopratutto il mezzo per difendersi dagli eccessi interpretativi altrui e vedeva in essa una sorta di foglio bianco sul quale lasciare, in maniera indelebile, il segno delle proprie intenzioni quale creatore di musica (l’inadeguatezza del rigo musicale, sia pure con tutti i suoi annessi e connessi, è argomento noto e ampiamente dibattuto; una vera spina nel fianco per chi vuole trascrivere musiche di culture differenti da quella ufficiale dell’Occidente), ben altre le motivazioni che spinsero un artista, questa volta un interprete (e che interprete!), un vero grande traduttore-traditore, a entrare tra le spire del disco in un abbraccio totale e definitivo.
È il caso clamoroso di Glenn Gould, il geniale e imprevedibile pianista canadese, che, nel 1964, all’apice di una carriera concertistica travolgente e provocatoria (le sue personalissime interpretazioni di Bach fecero scandalo, così come pure la sua dichiarazione di disistima per Mozart) decise di ritirarsi dalla pubblica scena, per rinchiudersi in una sorta di impenetrabile clausura all’interno degli studi di registrazione, dove rimase, volutamente confinato, fino alla morte avvenuta nel 1982.
Gould giustificò questa decisione controcorrente affermando che il concerto, come tale, era un rito ormai finito, che apparteneva al passato, e non si fece problema di affibbiare al pubblico che gremiva le sale per ascoltarlo l’epiteto di «forza del male». Quali furono le vere ragioni del suo volontario ritiro in realtà non è dato sapere. Sappiamo, questo sì, che Gould era sempre stato un solitario, un misantropo, un ipocondriaco, terrorizzato dall’idea stessa del contatto con la gente, ed è vero che egli seppe servirsi del mezzo tecnico – gli strumenti di registrazione – con intelligente cialtroneria, truccando sempre le sue registrazioni per arrivare a ottenere il risultato finale che sentiva dentro di sé e che, altrimenti, non avrebbe mai potuto concretizzare. Si comportò in pratica come un esecutore-creatore. Quando nel 1964 (anno del suo ritiro) l’Università di Toronto gli conferì la laurea honoris causa, anziché celebrare l’avvenimento con un concerto, come tutti si aspettavano, preferì tenere una conferenza sul tema “Prospettive della registrazione”.
Tra questi estremi – l’ostracismo di Celibidache, la totale dedizione di Gould, passando per la ragionevole positività di Stravinskij – si colloca il rapporto tra musica-musicista e registrazione del suono. Un rapporto che al di là dell’ingordigia commerciale di molti divi, ha radicalmente mutato, socialmente parlando, il rapporto musica/pubblico. È banale osservazione constatare quanto ben più vasta sia la massa di gente che può permettersi l’acquisto di un disco rispetto a quella che può permettersi, finanziariamente o anche semplicemente “fisicamente”, l’ingresso alla Scala, senza per questo nulla togliere al fascino che indubbiamente ancora oggi esercita – e sempre eserciterà – sullo spettatore una sala da concerto. Vedere suonare dal vivo, ne siamo tutti perfettamente coscienti, dona all’esecuzione quel “qualche cosa” in più che nessuna tecnica di registrazione del suono (o ripresa visiva) saprà mai trasferire all’interno delle nostre mura domestiche.
[A.P., per Trade Home Entertainment, anno 1998]