Storia

22c Marleen e le altre

È una sera del 1941, in piena Seconda guerra mondiale. Un addetto di Radio Belgrado trova in un magazzino di Vienna la copia di un disco 78 giri con una canzone, composta tre anni prima da due autori tedeschi per un cabaret di Berlino. La canzone che non ha mai avuto successo. Alle ore 21 e 57 minuti Radio Belgrado manda in onda il disco: «Vor der Kaserme, vor der Grossen Tor stand eine Lanterne, und steht sie noch davor». È un’ondata di sentimenti per i soldati al fronte e per i civili sotto il coprifuoco. È una rivelazione: tra gli orrori di una guerra feroce e spietata c’è posto anche per gli esseri umani.

La canzone era Lili Marleen e la sua interprete, Lale Andersen, divenne immediatamente famosa presso entrambi i contendenti. In Italia Lili Marleen fu tradotta dal paroliere Nino Restelli (“Tutte le sere sotto a quel fanal…”), ma anche russi, inglesi, americani, francesi ebbero la loro versione. Il generale Eisenhower, quello che organizzerà lo sbarco in Normandia, disse che ascoltare quella canzone era l’unico momento di sollievo nell’infuriare del conflitto. I tedeschi dapprima la apprezzarono (Radio Belgrado trasmetteva anche per le forze armate della Germania), poi i gerarchi nazisti fiutarono aria disfattismo, e lo stesso Joseph Goebbels, ministro della propaganda, dispose perché la Andersen venisse sorvegliata dalla Gestapo. «Non fossi diventata tanto nota in tutto il mondo, probabilmente mi avrebbero deportata», racconterà la cantante anni dopo.

Anno 1792. Il capitano Cloude-Joseph Rouget de Lisle, dopo aver preso parte alle prime fasi della rivoluzione francese, è a Strasburgo. Qui, una sera del 26 aprile si mette a tavolino e compone un inno: Chant de guerre pour l’armée du Rhin (Canto di guerra per l’armata del Reno), destinato ai volontari marsigliesi. Questi lo intonano mentre entrano a Parigi, il 30 luglio: «Allons enfants de la Patrie, le jour de la gloire est arrivé». Il popolo immediatamente lo fa suo e lo canta a voce spiegata quando, il 10 agosto seguente, dà l’assedio al palazzo delle Tuileries, segnando la fine della monarchia. La Marsigliese, come verrà chiamato quell’inno, diventerà il canto della Rivoluzione e poi della Repubblica francese, e le sue parole «Avanti figli della Patria, il giorno della gloria è giunto», echeggeranno molte volte da quel giorno.

Per caso o per volontà due canzoni sono entrate nella storia e ancora possono suscitare immagini e sentimenti che furono dei loro giorni. Per entrambe la guerra fu la causa della loro nascita e della loro notorietà. Moltissimi sono i canti che in circostanze analoghe hanno trovato la via per entrare nella memoria collettiva, superando l’arco delle generazioni e valicando mari e continenti.  È stato detto che la guerra è terribilmente “fotogenica” per le immagini che propone all’obiettivo del fotografo, ma la guerra è dotata anche di una tremenda forza psicologica per imprimere nella memoria i suoi suoni, non solo quelli del fragore delle armi ma anche della vita, che nonostante tutto resiste.

Ad ogni bravo americano, a 120 anni dalla fine della Guerra Civile, le note di John Brown’s Body o di Dixie parlano ancora il linguaggio dei nordisti e dei sudisti. La prima canzone, che celebra il sacrificio di un antischiavista, era nata spontaneamente per accompagnare la marcia del Secondo battaglione del Massachusetts; l’altra era stata scritta da un certo Daniel Decatur Emmett un sabato sera del 1859 per la colonna sonora di uno spettacolo di varietà. Quella sera l’impresario disse a Emmett: «Voglio una nuova canzone ed è meglio che ti sbrighi, o rimpiangerai di non essertene rimasto nel Dixie». Dixie, in gergo, stava per il Sud. Ecco lo spunto per il futuro inno sudista: «Vorrei essere nella terra del cotone… Vorrei essere nel Dixie».

La carneficina fratricida che di lì a poco si scatenerà darà alla canzone di Emmett un significato ben diverso, a cominciare da quel giorno del marzo 1861, quando il direttore d’orchestra Carlo Patti (fratello della nota cantante lirica Adelina) la eseguì in un teatro di New Orleans davanti a una platea percorsa da fremiti guerreschi. Finita la guerra nel 1865 a favore del Nord, il vincitore Abramo Lincoln farà eseguire Dixie da una banda militare: «È una bella canzone, e ora che il Paese è riunificato appartiene anche a noi».

La canzoni che entrano nella storia possono aiutare a capirla meglio, possono dare una mano a indagare i sentimenti di chi di quella storia fu protagonista. Non solo i protagonisti di prima linea, ma anche – forse soprattutto – i componenti del coro. Pensiamo ai nostri canti della Prima guerra mondiale, a quelli rimuginati dalla truppa, che mentre «il Piave mormorava calmo e placido al passaggio» perché «tacere bisognava e andare avanti» (autore E.A. Mario), recuperava una vecchia canzone della coscrizione obbligatoria: «Addio padre e madre addio che per la guerra mi tocca di partir, ma che fu triste il mio destino che per l’Italia mi tocca di morir», con il solito contraltare del recupero di un canto risorgimentale (nato dalla penna di un avvocato, certo Carlo Bosi, che diceva: «Addio mia bella addio, che l’armata se ne va e se non partissi anch’io sarebbe una viltà». Ma l’animo di molti combattenti non era più quello dell’anelito unitario, come sottolineava Gorizia, canzone antimilitarista della Grande Guerra evocativa  dei caduti italiani durante gli scontri per la presa della città: «Oh Gorizia tu sei maledetta per ogni cuore che sente coscienza, dolorosa ci fu la partenza e il ritorno per molti non fu. Oh vigliacchi che voi ve ne state con le mogli sui letti di lana, schernitori di noi carne umana questa guerra ci insegna a punir».

D’altra parte anche una figura apparentemente al di sopra di ogni sospetto, come quella di Giuseppe Garibaldi, aveva suscitato sentimenti contrastanti. Se l’inno dei Garibaldini, scritto nel 1860 da un segretario comunale, Rocco Traversa, orgogliosamente proclamava che «quando la tromba suonava l’allarmi con Garibaldi corsi arruolarmi», al tempo dell’impresa dei Mille in Puglia circolava questa strofetta: «Ca mm’a fa de Garibadde ca iè mbane e traditore?», che ce ne facciamo di Garibaldi, infame e traditore?

Non sempre il popolo è in sintonia con la storia ufficiale, stretto nella grama realtà di un’altra storia che può sconvolgerne irreversibilmente il destino. «Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar», cominciavano a cantare nella seconda metà del secolo scorso [XIX secolo] gli emigranti italiani. Affrontavano un’avventura incerta e certo precaria, di cui si conosceva solamente l’inevitabile durezza e sofferenza: «Trenta giorni di nave e vapore fino in Merica semo arivati, no abiam trovato né paglia né fieno, abbiam dormito sul nudo terreno come le bestie che va a riposà».

Moltissime sono le canzoni che con le loro note e le loro parole richiamano alla mente una storia. Bella ciao è per noi sinonimo di Resistenza; La Varsovienne vuole dire Rivoluzione d’Ottobre in Russia; Los quatro generales evoca la Guerra civile spagnola; Addio a Lugano si lega al movimento anarchico; Greensleves è l’Inghilterra di Elsabetta I; The patriot game nasce durante lo scontro tra irlandesi e inglesi; Adelita è il messico rivoluzionario… Per non parlare dei canti “prodotti” dal fascismo, soprattutto in funzione delle sue imprese belliche e del sogno imperiale (Faccetta NeraTi saluto e vado in AbissiniaPartono i sommergibili…). Giovinezza prima di diventare una sorta di secondo inno nazionale del regime, era stato un canto goliardico.

Va ricordato anche il fenomeno opposto, di quelle canzoni che nate in precise circostanze storiche, perdono col tempo la loro specifica connotazione ed entrano nel comune repertorio canzonettistico internazionale, dove vengono proposte nell’oblio delle origini. È il caso della Cucaracha, inno dei partigiani di Villa durante la rivoluzione messicana del 1911, e che nel testo originale bellicosamente diceva: «con la barba di Carranza [l’avversario di Villa] voglio fare un nastro per metterlo sul sombrero di Villa». C’è anche Guantanamera, scritta nella seconda metà dell’Ottocento da Josè Marti, eroe della indipendenza di Cuba. «Io sono un uomo sincero, nato nel paese delle palme, e prima di morire desidero liberare i versi che tengo nel cuore», poi parlava della schiavitù e del dolore universale. Circostanze che appaiono impensabili quando la canzone è affidata alla voce e all’interpretazione di un divo della musica leggera di ieri o di oggi: Nat King Cole, Bing Crosby o addirittura l’eterno innamorato Julio Iglesias. È il prezzo che la Storia paga alla moda.

[A.P. per TV Sorrisi e Canzoni]

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