«Da scrittore, sono stato medico, e da medico sono stato scrittore», quasi un’epigrafe, in cui William Carlos Williams racchiuse il senso della propria vita. Presente nelle antologie scolastiche con una brevissima creazione («molto dipende / da / una rossa carriola /resa brillante / dalla pioggia / accanto ai bianchi / pulcini»), Williams tra le sue due vocazioni seppe trovare una proficua compresenza. Infatti così concludeva la poesia Complaint: «Ecco una grande donna / che giace su un fianco nel letto. È malata / forse sta vomitando, / forse è in travaglio / per dare alla vita / un decimo figlio. […] / Le scosto dagli occhi i capelli / e osservo la sua pena / con compassione». E un altro lampo: «L’ala nascosta / dell’ospedale / dove mai / nulla crescerà / là vi è cenere / e lo splendore / dei cocci d’una verde / bottiglia».
Alcune poesie le creava sui fogli per le prescrizioni mediche, altre le batteva a macchina nei minuti tra una visita e l’altra: «Una frase mi si palesava per un istante, e la buttavo giù su qualunque pezzo di carta avessi sottomano». Dirà: «La professione medica dà l’occasione di conoscere attraverso strade imprevedibili la vita, e questa conoscenza per lo scrittore è viva carne, i miei malati sono stati un nutrimento per la mia musa… ero presente all’atto della nascita e a quello della morte… la medicina dà l’opportunità di capire cosa è la vita». Fu anche medico condotto e si alzava di notte per correre presso chi lo aveva invocato: «Mi chiamano e vado / è una strada ghiacciata / dopo mezzanotte, con / polvere di neve gelata / nei solchi induriti delle ruote».
Era nato nel 1883 nel New Jersey, a Rutherford, «dove andavo a cacciare anatre e topi muschiati», da un padre di origine inglese e una madre portoricana. Il padre gli leggeva Dante e Shakespeare, e lui, William Carlos, amava Dante e il romantico John Keats ma anche i versi “liberi” del bardo d’America Walt Whitman, «una spinta verso la libertà». Giovanissimo fu dominato dal terrore di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori, intellettuali e borghesi. Per un certo tempo fu in Europa a studiare. Al liceo iniziò a coltivare interesse per l’uso e le possibilità espressive della lingua. Studiò anche a New York poi si iscrisse all’Università della Pennsylvania. Nel 1906 si laureò in medicina, specializzandosi in pediatria. All’Università si era legato di fraterna amicizia con Ezra Pound, che lo introdurrà nel mondo dell’imagismo, una corrente poetica tipicamente angloamericana. Di quell’incontro Williams dirà: «Fu per me uno spartiacque, una sorta di prima e dopo Cristo». Nel 1912 sposò Florence Herman, la Flossie delle sue poesie.
Ebbe inizio è si sviluppò una vita che scorreva su due binari. Quella di poeta – il primo libro, Poems, era uscito nel 1909 – e quella di medico, con l’internato al French Nursery & Child’s Hospital di New York e più avanti con il ruolo di primario di pediatria e poi di direttore dell’ospedale nella cittadina industriale di Paterson, nel New Jersey. Qui assistette allo sciopero degli operai; vide le cariche della polizia e gli arresti in massa; vide l’esistenza nella fame di tante famiglie e fu dalla loro parte. I figli di quella gente lui li aiutava a venire al mondo.
Intanto i suoi interessi letterari si ampliavano: non solo poesia ma anche teatro, critica, racconti, romanzi, saggi e più tardi un’autobiografia. Al centro l’amore per l’America (In the American Grain – Nelle vene dell’America – è del 1925; in Italia è stato proposto da Adelphi) e la ricerca di un innovativo metodo per comporre in versi, fino alla messa a punto di un linguaggio poetico che definì «piede variabile». Dall’imagismo passò al modernismo. Il contemporaneo successo raggiunto con The Waste Land dal futuro naturalizzato inglese Thomas S. Eliot tenne a lungo in ombra il nome di Williams, ma lui non si scoraggiò. Nemmeno a Paterson e a Rutherford, suoi stabili habitat, erano molti a sapere di questa “altra” attività dedicata alle lettere.
Lavorò per decenni quasi in preparazione della sua opera più importante, Paterson, un ritratto in versi e prosa della città, intesa come rappresentazione dell’Uomo, perché «l’uomo stesso è una città». Diviso in cinque parti – la prima uscirà nel 1946 e l’ultima nel 1958 – il lavoro gli valse un riconoscimento di rilievo nazionale, il National Book Award, preludio al Pulitzer, postumo, del 1963. Nel 1949 gli era stato offerto un posto di prestigio alla Library of Congress di Washington, offerta che venne poi ritirata sotto l’accusa (rivelatasi falsa) di essersi iscritto al partito comunista e – quasi un controsenso – a causa della sua stretta amicizia con Ezra Pound, additato come traditore della Patria per le dichiarate simpatie nei confronti del nazismo.
Nel 1956 la piccola casa editrice di San Francisco appartenente al poeta Lawrence Ferlinghetti, City Lights Books, pubblicava il poema di Allen Ginsberg, Howl, Urlo: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche, / trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa». La prefazione era firmata da William Carlos Williams. I due poeti si conoscevano da tempo: «Quando lui era più giovane, e io ero più giovane, conoscevo Allen Ginsberg, un giovane poeta che viveva a Paterson, New Jersey, dove – figlio di un ben noto poeta – era nato e cresciuto». L’anziano e ormai affermato Williams, un distinto signore dall’aspetto perbene, con gli occhiali e la calvizie incipiente, vestito di grigio in giacca e cravatta, si era incontrato con la nuova generazione dei poeti americani, in particolare con quella Beat, dove militava Ginsberg. Quei “ragazzi” lo consideravano loro «padre spirituale» e lui cercava da sempre nuove idee, nuovi modi d’esprimersi, nuovi fermenti. Williams indicava una strada alternativa all’accademismo di Eliot. Howl scatenò accuse e processi, ma Williams non ne fu danneggiato. Nella lunga gestazione di Paterson trovò modo di inserirvi lettere di Ginsberg e di Pound, la cartella clinica di un paziente, articoli di giornali e di evidenziare quello che era il suo credo: «Nessuna idea, se non nelle cose». Il linguaggio doveva essere lo stesso in uso tra la gente.
Dal 1948 cominciò ad avere problemi di salute. Problemi seri, che più tardi renderanno Williams disabile e quasi cieco. La fedele Flossie leggeva ad alta voce e lui ascoltava e continuava imperterrito a creare (l’ultima parte di Paterson è di quegli ultimi faticosi anni). Venne un altro capolavoro, dall’incipit memorabile: «Dell’asfodelo, quel fiore verdeggiante / come un ranuncolo / sopra il gambo che si dirama – / solo che è verde e legnoso – / vengo, mia dolce, / a cantarti». C’era l’amore e c’era la speranza in qualche cosa al di là della vita. Morì a 79 anni, il 4 marzo 1963. Il poeta beat e quasi omonimo Jonathan Williams lo ricorderà così: «Sono contento / che tu sia morto / il mese / in cui viene primavera».
Box 1 – Turbato profeta Fernanda Pivano nei suoi diari, pubblicati da Rizzoli Libri, ricorda che quando riferì ad Allen Ginsberg che molti anni prima, nel 1956, William Carlos Williams le aveva parlato proprio di lui, Ginsberg aveva mostrato incredulità. «Quanto a me», prosegue il racconto della studiosa e traduttrice della letteratura nordamericana, «era la prima volta che sentivo questo nome: l’anno prima, il 13 febbraio 1955, c’era stato il reading di San Francisco che aveva lanciato L’Urlo, ma William Carlos Williams non me ne aveva parlato, mi aveva solo detto che stava scrivendo la prefazione al libro di questo giovane poeta che sicuramente avrebbe fatto parlare di sé». In quella prefazione, Williams avrebbe detto che Allen «era sempre sul punto di “andarsene”: dove, non pareva importargli molto. Mi turbava, non avrei mai pensato che sarebbe vissuto abbastanza da crescere e scrivere un libro di poesie». Secondo alcuni critici, all’inizio lo stile di Ginsberg sembrò rifarsi parzialmente a quello del suo più anziano e famoso mentore.
Box 2 – Con il linguaggio dei pazienti In un’intervista rilasciata a Paris Review nel 1962, un anno prima della morte, Williams cercò di spiegare il concetto del suo variable foot, la metrica «a piede variabile», che aveva messo a punto dopo diversi anni di ricerche. In realtà chiarì poco quel concetto, che in sostanza era una filiazione del verso libero di Whitman e che si basava su un particolare modo di spezzare il verso. Sostenne che era un sistema per adattarsi meglio al ritmo della lingua americana di ogni giorno, diverso dal ritmo generalmente in uso in Europa. Anche in questo caso il poeta era debitore e in sintonia con il medico: il linguaggio e il soggetto trattato dovevano essere quelli presenti tra la gente comune, quella gente che il medico Williams aveva modo di incontrare, anche professionalmente, tutti i giorni: operai, casalinghe, madri di famiglia, piccoli impiegati, commercianti. Sostenne che il suo era un sistema per risolvere il conflitto tra la forma e la libertà propria dell’espressione poetica.
(Corriere della Sera)