(contributo per una tesi di laurea)
A metà degli anni ’70 del secolo scorso il territorio dell’Emilia Romagna divenne oggetto di ricerca da parte di un nutrito gruppo di etnomusicologi e ricercatori sul campo che faceva capo a Roberto Leydi. Quei signori erano armati di registratori a nastro e giravano per i borghi sulle tracce di ciò che ancora rimaneva della cultura popolare orale. Soprattutto del canto, del suo repertorio e dei suoi modi espressivi. Con un certo stupore si poté constatare, sia per quanto riguardava l’emissione della voce sia l’articolazione della melodia sia la costruzione della polivocalità (vale a dire, del cantare in coro, secondo il termine in uso per il mondo popolare), che questi elementi nel caso degli esecutori maschili tendevano ad assumere una colorazione di tipo operistico; un’impressione resa ancor più palese da un’emissione che (quasi) si imparentava con quella propria dell’interprete del teatro lirico.
Sorpresa? sì, ma a ben vedere fino a un certo punto. Quella è la terra di Giuseppe Verdi (Roncole di Busseto, Parma, 1813; Milano, 1901) e quindi non era affatto azzardato supporre una diretta influenza in direzione popolare, e perciò anche di imitazione, del diffusissimo e tanto celebrato repertorio del Maestro, oltre che dei suoi interpreti. Facendo ancora un piccolo passo in avanti, se ne deve dedurre che la indiscussa “popolarità” verdiana ha avuto origine quando il compositore era ancora attivo, forte di una straordinaria orecchiabilità (pensiamo alla trilogia, definita non a caso “popolare”, Rigoletto – anno 1851 –, Il Trovatore – 1853 –, La Traviata – 1853) e di una prolificità di arie che si imprimevano immediatamente nella memoria, collocate all’interno di vicende grondanti umano romanticismo, spesso imparentate con il romanzo d’appendice alla francese, e nelle quali non tutti i protagonisti erano di sangue blu, creando una sorta di più agevole transfert con l’ascoltatore. Agnizioni, amor di Patria, amor di donna, figli, padri, fedeltà e infedeltà, sacrificio, redenzione, eroismo, vendetta, inganno, odio e altro ancora ne erano componenti di volta in volta essenziali.
Se il teatro lirico, soprattutto quello italiano e soprattutto quello belcantistico, è stato dapprima paragonato al cinema popolare (attenzione, non a quello di serie B ma a quello con gli Amedeo Nazzari e le Yvonne Sanson) e poi alla soap-opera televisiva, lo deve anche a questa sua immediata presa su un pubblico tanto vasto quanto eterogeneo, oggi diremmo interclassista. La grande fama di Verdi – dovuta anche alla sapienza e all’abilità del suo editore, Ricordi – ha fatto sì che si creasse una sorta di simbiosi di gusti e di sentimenti tra il Maestro e il pubblico al quale si rivolgeva. Quindi con l’Italia stessa, dapprima in fase di unificazione e poi unita. Un ruolo catalizzatore del consenso e della passione, almeno inizialmente, dovrebbe averlo svolto pure il famoso e sempre ricordato – soprattutto nei testi scolastici dell’obbligo – grido risorgimentale «Viva Verdi», dove l’invocato nome starebbe per le iniziali di “Vittorio Emanuele Re d’Italia”. Merito di così chiara sintonia con il pubblico va anche ascritto ai librettisti, spesso letterariamente criticati ma certamente alcuni tra loro validi conoscitori dello spirito che animava il sentire comune presente tra la gente (“comune” il sentire ma non la lingua in uso, dal momento che il dialetto era ancora e ovunque imperante, classi elevate comprese).
Attraverso questa gestazione, Giuseppe Verdi è diventato sinonimo di italianità, e quindi prezioso oggetto da “esportazione”. Sinonimo dunque di melodia e di belcanto, di quella vocalità all’Italiana che si è mantenuta tale anche dopo la scomparsa del Maestro, avendo già aperto un non secondario rivolo nella cosiddetta “romanza da salotto” (in un certo senso, il corrispettivo nostrano del Lied tedesco) e da qui nella “canzone all’italiana”, rimasta viva fino a dopo la Seconda guerra mondiale e poi ristrettasi, per ragioni generazionali e sociali, in ambiti e repertori locali, che però mantengono ancora ai nostri giorni una buona vivacità, come testimoniano gli spettacoli ruspanti di molte televisioni locali.
La giganteggiante figura del “Verdi compositore”, che deve la sua fama mondiale in modo esclusivo alla produzione nel mondo della lirica (fa eccezione un Requiem), in quanto ristrettissima è la produzione solamente strumentale, trova in Germania – e nel mondo – quello che potremmo definire come un suo parigrado in fatto di universalità della fama: Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770 – Vienna, 1827). Beethoven però compose un’unica opera che può rientrare in ambito lirico, Fidelio, scritta e riscritta per un totale di tre volte e della quale è nota ed eseguita soprattutto l’ouverture, con il nome di Leonora, mentre la sua grandezza svetta senza pari nelle composizioni per pianoforte, nelle cameristiche (soprattutto i quartetti) e nelle nove sinfonie, dove con la Nona, addirittura rivoluzionaria, costruì un vertice universalmente riconosciuto e ineguagliabile, non solo ai suoi tempi. «Soltanto rispetto a Beethoven è possibile pensare in termini musicali così risoluti di “prima” e di “dopo”. Beethoven è il perno della musica come psiche e pensiero, anche per coloro che non ne conoscevano opere; finì per diventare luogo comune e “funzione culturale” non bene esplorata, eppure dotata di peso specifico suo proprio» (Piero Buscaroli, Verso Beethoven, ed. Rusconi).
Beethoven, dunque, come massima espressione del sinfonismo, un ambito musicale piuttosto trascurato nell’Italia ottocentesca e che sembrava rappresentare in maniera apertamente allusiva la Weltanschauung dell’anima tedesca, fatta di spirito eroico, di romanticismo, di sentimentalismo, di crepuscolarismo ante litteram, di scoperta della natura, di malinconia, di ripiegamento in se stessi, di grandi gesti verso il mondo, in un crescendo che dalle prime due sinfonie beethoveniane, contrassegnate da un carattere che rimandava ad Haydn, passando per la Terza (Eroica) e la Sesta (Pastorale), portavano all’esplosione della già ricordata Nona (Corale), con il coro e i solisti che nell’ultimo grandioso tempo (il quarto) intonano le parole dell’ Ode alla Gioia di Schiller: «Freude, schöner Götterfunken», preceduto da un terzo tempo di intima e commovente spiritualità. Va sottolineato che quella “costruzione“ polifonica a Verdi non piacque.
In realtà non è mai esistito un dualismo Verdi/Beethoven (ci sarà, e ancora esiste, se non altro nei gusti del pubblico, quello Verdi/Wagner, che però si svolge sullo stesso terreno: il teatro cantato), né mai avrebbe potuto essercene uno anche solo abbozzato, non fosse altro per la breve e ininfluente coincidenza di date (quando il tedesco morì, l’italiano aveva solo 14 anni, le loro personalità erano profondamente diverse, così pure le loro vite e il loro ambito d’azione), ma non è azzardato ritenere che nell’opera dei due Grandi si rispecchi, almeno in parte, l’animo dei rispettivi popoli di appartenenza. O, quanto meno, l’immagine pubblica (e pubblicistica) che di essi normalmente si ha.
Nella prefazione al suo L’arte di Verdi (ed. Einaudi), il musicologo Massimo Mila parlava di una «Verdi-Renaissance», collocandola negli anni ’20 del Novecento, «di quel periodo fecondo e caotico che vide affacciarsi alla vita i superstiti della generazione perduta, sul cui sviluppo s’era abbattuta la guerra», un conflitto al quale avevano preso parte sia l’Italia sia la Germania. E il “rinascimento” verdiano fu attivo anche in terra tedesca. In Germania, […] la Verdi-Renaissance ebbe origine come reazione alla retorica eroica del wagnerismo», e qui si deve inevitabilmente di nuovo sottolineare come Richard Wagner fosse l’“avversario” universalmente accreditato proprio di Verdi, secondo termine di un dualismo del quale ancora oggi si avvertono le chiare tracce, anche se l’opera wagneriana è immersa in un contesto “da melomane specialista” che non tocca né Beethoven né Verdi, amati e celebrati “a prescindere”.
«Scoprire la grandezza di Verdi», scriveva ancora Mila riferendosi alla Germania, «vuol dire denunciare un altro errore della altezzosa Kultur che ha condotto alla guerra». Mentre per il Maestro italiano, lo studioso si spingeva molto avanti con una apodittica affermazione: «Parlare di Verdi, per noi italiani, è come parlare del padre». E infatti precisa «a noi, e tra noi, interessa – al di là della grandezza artistica che è materia di fede comune – interrogare il messaggio di quest’arte e rilevarvi le tracce di una filiazione spirituale, ripercorrere le linee d’una genealogia, non araldica ma popolana, dell’italiano moderno. Riconoscere in lui noi stessi».
Lo spirito germanico trova una sua roboante cassa di risonanza in Beethoven, soprattutto nel suo già sottolineato sinfonismo. Fino all’avvento del Maestro di Bonn la sinfonia era uno dei molti modi in cui la creazione musicale poteva prendere forma: «Fino ad allora, scrivere una Sinfonia non costava ad un compositore maggior fatica di quanto ne costi a una gallina fare l’uovo» (il paragone, un poco irriverente, è ancora di Mila, Lettura della Nona sinfonia, ed. Einaudi). Infatti Haydn ne scrisse 104 e Mozart 49 (ma le ultime, va detto, sono assolutamente “uova d’oro”). Beethoven fa la rivoluzione: nove sinfonie in continua crescita, fino alla monumentale ultima, dando praticamente vita a un nuovo modo di interpretare il genere e fissando un quasi invalicabile limite numerico. Mahler morirà lasciando incompiuta la sua Decima e consegnando ai posteri la magica formula: «Una Sinfonia deve essere un mondo».
Beethoven aveva cominciato a lavorare in quella direzione già dalla sua Terza (Eroica, anni 1802-1804), ancora figlia dell’Illuminismo, proiettata verso il Romanticismo (culla del pensiero tedesco ottocentesco) e vero spartiacque nell’evoluzione della scrittura orchestrale. Fu accolta alla sua prima esecuzione piuttosto male dalla critica, che la giudicò troppo lunga (solo la Nona la supererà in quanto a minutaggio) e per di più noiosa, mentre ai più sfuggì non solo il suo spirito epico ma soprattutto il contenuto totalmente innovativo.
Non va dimenticato che Beethoven comporrà anche per il pubblico – era questione di quotidiana sopravvivenza, anche se non mancarono i momenti di vero benessere, mai comunque paragonabile alla fortuna economica di Verdi, a un certo punto vero produttore di bestseller – e non solo su commissione di qualche nome illustre fornito di generoso portafoglio. Probabilmente anche in questa disposizione mentale sta parte del “segreto“ che spiega il suo successo, destinato attraverso i decenni a una continua crescita di popolarità anche presso chi non frequenta il repertorio “classico“. Oggi come ieri il nome di Beethoven per i più significa musica classica, sinfonia, Germania. Non per nulla ai giorni nostri le iniziative editoriali discografiche destinate alla diffusione attraverso le edicole solitamente iniziano proprio proponendo una sinfonia beethoveniana, ben conoscendo quale richiamo esse abbiano sull’ascoltatore anche italiano, che inevitabilmente ne ha sentito parlare e sa che sono una “grande“ cosa.
In realtà, secondo Henry Raynor (Storia sociale della musica, Il Saggiatore) «è impossibile dire fino a che punto Beethoven compose per il vasto pubblico», ma lo stesso Raynor ci tiene a precisare che «sebbene il senso pratico non sia una delle qualità che normalmente associamo a Beethoven, questi condusse i suoi affari molto più accortamente di Mozart e fu in grado di trasformare una rischiosa esistenza da libero professionista [in pratica, una nuova figura, ndr] in un successo artistico e commerciale». Sia Beethoven sia Verdi composero avendo in mente i propri editori, i quali avevano come scopo il ritorno economico legato alle composizioni da essi stampate. Verdi intavolò lunghe “discussioni” con Ricordi, Beethoven non fu così legato a chi la musica la stampava (i tempi non erano ancora del tutto maturi) avendo anche singoli e danarosi committenti, ma anch’egli trasse parte de propri guadagni dai biglietti venduti per concerti di sue musiche (per un certo periodo dirette o suonate da lui stesso al pianoforte). Non gli mancò nemmeno l’appoggio della nobiltà, a confermare che il periodo era di transizione.
Fa parte dell’oleografia verdiana la via Manzoni di Milano cosparsa di paglia affinché le carrozze non disturbassero le ultime ore di vita del Maestro. Ai funerali di Beethoven presero parte decine di migliaia di viennesi. Ricorda ancora Raynor: «La leggenda di Beethoven era già in circolazione quando Berlioz visitò Vienna nel 1846». Una “leggenda” che in realtà si era andata formando ed espandendo quando il compositore era ancora attivo, come sottolinea Maynard Solomon: «La grandezza di Beethoven era già da tempo diventata articolo di fede nei principali paesi europei, e la sua fama iniziava ad espandersi anche in terre più lontane. I programmi della Società Filarmonica di Londra durante gli anni 1820 presentarono sessanta esecuzioni delle sinfonie e ventinove delle sue ouvertures. A Vienna, le lodi del suo genio che apparivano sulla stampa erano, se mai, eccessivamente adulatorie. In quanto alla Germania, viaggiatori dell’epoca riferivano che i tedeschi lo consideravano il più alto genio musicale d’Europa, a parte Mozart […]. Gli scrittori romantici tedeschi- capeggiati da Clemens Brentano e E. T. A. Hoffmann – lo ammiravano sino all’adulazione. Schopenhauer andava affermando che le sue sinfonie esprimevano l’essenza della musica. Soltanto Hegel, ammiratore di Rossini, manteneva un certo riserbo» (Solomon, Beethoven, ed. Marsilio).
Restano più che mai attuali le parole del grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler: «È difficile trovare il nome di un altro grande Tedesco che risuoni nel mondo intero con la stessa reverente ammirazione che suscita quello di Beethoven […] l’opera di Beethoven rappresenta una forza spirituale che la Germania, senza di lui, non possiederebbe. Nessuno ha portato ad espressione con tanta efficacia la potenza e la grandezza del sentire tedesco». (premessa di W. F. a : Walter Riezler, Beethoven, ed. Rusconi).
Sulla base anche del successo popolare ottenuto non solo nei rispettivi Paesi di nascita ma anche all’estero, non è improprio considerare Verdi e Beethoven quali archetipi rappresentanti “moderni“ del popolo/della cultura/dei sentimenti/dell’anima delle nazioni dove si sono artisticamente formati e dove hanno espresso il proprio genio. Non c’è quindi da stupirsi se un coro verdiano, Va’ pensiero (Nabucco), sia stato a più riprese invocato quale inno nazionale italiano, in barba alla circostanza che nell’opera sia intonato dagli ebrei, e che le note della beethoveniana Ode alla Gioia costituiscano l’inno dell’Europa unita.
(anno 2019)