Nei dodici anni durante i quali trascorsi parte dell’estate nella casa delle colline biellesi, capitò almeno due o tre volte che Toni, il mezzadro che con la famiglia viveva nell’annessa cascina, dovette avvalersi della collaborazione di un bracciante a giornata. Sempre lo stesso.
In certe estati il mese di agosto tradiva Toni, con frequenti e improvvise piogge che rendevano fradicia l’erba, e in quelle condizioni il prato non poteva essere tagliata per avere il fieno che sarebbe servito per tutto l’inverno, e anche più. Così nelle altalenanti giornate favorevoli alla falciatura una sola lama non bastava per accelerare i tempi. Ne occorreva un’altra. Occorreva inoltre, volgendo uno sguardo speranzoso e implorante al cielo, che il sole cominciasse a seccare l’erba per renderla più leggera e quindi più facilmente trasportabile a spalle su per la ripida e incombente collina. Una volta arrivati nella grande corte, il fieno, non ancora del tutto pronto, veniva nuovamente sparpagliato per un ultimo benefico colpo di sole. Alla fine quella che era stata verdeggiante e succosa erba, veniva accatastata con sapienti colpi di forcone nel fienile, al piano che sovrastava la stalla dove ruminavano le mucche. I due “locali” comunicavano tramite un’apertura circolare praticato nel pavimento, in modo che nelle giornate più fredde fosse possibile foraggiare le bestie senza dover continuamente aprire la porta della stalla, con gli inevitabili spifferi che sapevano di neve e di nebbiosa umidità.
«Fare fieno» era un lavoro rubato all’inferno. Era fatto di sudore, di muscoli spossati, di fiato corto, di pendenze scivolose, di poca ombra e di molta sete, di gambe che nella lunga salita che mai finiva non reggevano più, di male alle reni e di fitte alla schiena, di occhi che lacrimavano per il pulviscolo che si sollevava dall’erba che stava seccando. E quel caldo appiccicoso come miele. Tagliare l’erba come-dio-comanda era opera che si imparava col tempo e con molta pazienza. Ci voleva buon occhio, senso del ritmo, mano leggera e attenzione alle pietre eventualmente nascoste nell’erba alta. La lama era lunga circa sessanta centimetri, il manico, a doppia impugnatura (una a un’estremità e una a circa a metà), misurava ben più di un metro. Erano importantissimi il bilanciamento tra le due mani, il movimento a pendolo e la capacità di mantenere costantemente il taglio a tre o quattro centimetri dalla base dell’erba. Ogni dieci minuti o poco più bisognava fermarsi per rinnovare il filo della lama con la pietra di cote, che si portava legata alla cintura in una custodia di metallo con tre dita d’acqua. Quell’operazione poteva costare l’uso di un dito.
Dunque, in quelle stagioni precarie Toni si dava da fare per trovare un aiuto, una persona esperta da aggiungere alla moglie che lavorava di rastrello e forcone, e al figlio minore (il maggiore lavorava già nel lanificio e non poteva assentarsi). Il bracciante si chiamava Pietro, detto “Perulìn”, Pierino, nome assolutamente inadatto per quel vero marcantonio che era il giovane e aitante omone. Non molto alto, ma tarchiato, pieno di muscoli, con la forza di un torello, di pochissime parole, amante dei monosillabi e del fiasco di vino. Vestiva calzoni di panno, camicia a quadrettoni e scarpe di corda. Non aveva altro. Di notte dormiva nel fienile. Una sera eccedette con il fiasco e cominciò a urlare correndo a sghimbescio attraverso il cortile e imprecando contro un invisibile rivale. Toni seppe come rabbonirlo e con amabile delicatezza lo accompagnò su nel fienile. Il mattino dopo vidi Perulìn con la testa sotto il grosso rubinetto dell’abbeveratoio in pietra. La tempesta era passata. Anche oggi si potrà lavorare a pieno ritmo.
Si deve trasportare a spalle il fieno dalla bassa vallata al cortile della cascina. Un dislivello che sarebbe proibitivo per un escursionista di città ma che non spaventa i lavoratori di questa landa che si appresta al salto verso le Alpi. Perulìn usa la tradizionale gerla in rami di salice. Ne ha scelta una decisamente grande ma altrettanto decisamente piccola per un carico che travalica di molto i bordi del contenitore. Pare un cono gelato riempito tre volte tanto rispetto a quanto gelato ne potrebbe effettivamente contenere. Il “torello” non fa una piega. Imbottisce ben bene la gerla, fissa l’abbondanza del fieno con corde tese tra bordi opposti, chiede di tenere il carico diritto e appoggiato sul terreno, lui si siede, infila le cinghie sulle spalle e con un colpo delle reni si alza. Poi si avvia verso l’alto. Un passo dopo l’altro, lento e regolare, come pure regolare è il respiro.
Toni porta un carico ancora maggiore. Lo chiama “fassio”. Stende in terra due o tre lunghe funi, sopra queste allarga un telo robusto, poi è la volta del fieno, accatastato secondo una prassi precisa che solo la sua esperienza conosce. Comprime il tutto con il forcone, e quando gli sembra che il peso sia al limite delle proprie forze, unisce i lembi del telo e fissa il tutto con le funi. Infine, aiutato a mantenere l’equilibrio dalla moglie, si carica sulle spalle il “fassio”. Fatto ciò si avvia: stesso passo, stessa regolarità, stesso respiro. Da lontano ricorda un fungo con un lungo gambo e due piedi.