Infortunio sul lavoro. Così oggi sarebbe stato classificato quel disgraziato e in verità piuttosto maldestro incidente che portò a segnare la data dell’8 gennaio 1687 nella storia della musica. Protagonista il cinquantacinquenne Giovanni Battista Lulli (Monsieur de Lully, come si faceva chiamare), fiorentino, figlio di un nobile o di un mugnaio (dipendeva da chi forniva l’informazione), naturalizzato francese nel 1661 e contemporaneamente nominato “Suvrintendant de la musique de la chambre du roi”, uomo onnipotente di Sua Maestà Luigi XIV, il Re Sole, con l’incarico, a partire dal 1672, di direttore dell’Académie Royale de Musique.
Lully si trovava in Francia dal 1645, quando tredicenne era stato chiamato a Parigi dal Cavaliere di Guisa perché si mettesse al servizio di Anna Maria Luisa d’Orléans, allo scopo di aiutare la Grande mademoiselle a meglio destreggiarsi in conversari di buon italiano. In quell’ambiente il ragazzo aveva approfondito le proprie conoscenze musicali, che andarono ad affiancarsi a quelle di ballerino (un’attività poi abbandonata ma mai ripudiata) e di bouffon, cioè giullare e intrattenitore di Corte. Quando la sua padrona cadde in disgrazia, nel 1652, Giovanni Battista si propose al re.
Nella Parigi del re Sole, Lully conquistò una posizione di inattaccabile rilievo, non solo nell’arte della musica, compresa quella da Chiesa e la tragédie-lirique, ma anche nello spettacolo in generale, e soprattutto entrò a mani basse nella cerchia dei prediletti del sovrano. Con gli anni diventerà una sorta di occulto plenipotenziario, più considerato dello stesso cardinale Mazarino per certe materie, e la sua influenza sbarrerà la strada ad altri colleghi desiderosi di aggiungere il proprio nome nell’ambita cerchia dei favoriti di Sua Maestà. Ne fece le spese Marc-Antoine Charpentier, non certo l’ultimo arrivato tra i “lavoratori” del pentagramma ma con il torto di essere ritenuto sostenitore della scuola italiana, una scuola che Lully (dimentico della propria origine toscana) osteggiava. Charpentier venne tenuto in panchina. In realtà l’immemore fiorentino poteva permettersi tutto. Come interrompere nel 1672 la collaborazione con Molière, pur segnata da numerosi successi. Anche Racine e Corneille ebbero occasione di unire la propria alla mano dell’immigrato italiano.
Simpatico, affabile, prodigo (anche in materia di amanti, pur restando buon marito e buon padre di sei figli), Lully si mostrò amichevole con molti e l’opposto con altri, e ciò gli procurò oltre al plauso della Corte e del Sovrano (al punto che questo lo onorò del ruolo di padrino per il suo primo erede) anche il rancore, l’invidia e l’odio di molti nemici più o meno occulti, più o meno caparbiamente ma inutilmente determinati a toglierlo di mezzo. Fece scalpore nel 1675 la rivelazione, da parte di una vendicativa ex-amante di Henry Guichard, la quale dichiarò che per mere ragioni di carriera Guichard aveva tentato di avvelenare Lully. Ne seguì una causa, caldeggiata anche dal re, che si protrasse per tre anni, con inevitabile vittoria del superprotetto Lully.
Là dove l’invidia e l’astio dei nemici aveva fallito, riuscirà la mano dello stesso Monsieur de Lully. Il giorno 8 gennaio 1687 Jean-Baptiste era impegnato a dirigere le prove di un Te Deum che doveva rappresentare il fulcro del pubblico ringraziamento per la ritrovata salute del Sovrano, rimessosi dopo un ennesimo malanno con relativo intervento della mano del chirurgo. In quel momento della storia dell’esecuzione musicale, il direttore non era ancora lo ieratico signore che arriverà nell’Ottocento: ritto sul podio, impeccabilmente vestito di nero, con immacolata camicia bianca, fronte imperlata di sudore, concentrato a guidare gli esecutori impugnando una sottile bacchetta che ne amplifica il carismatico gesto. In quegli anni la funzione poteva essere più banalmente affidata al primo violino e al suo archetto agitato a fendere l’aria, oppure al clavicembalista, se previsto. A Parigi e dintorni la funzione direttoriale veniva assolta da un batteur de mesure, che marcava il tempo servendosi di un grosso bastone con il quale dava a ritmo colpi sul pavimento. Trascinato dal suo carattere impetuoso o forse improvvisamente distratto da un annuncio a lui poco gradito (il Te Deum era stato depennato?), Lully invece del pavimento colpì con tutta la forza del braccio l’alluce del proprio piede.
Il dolore fu violento, insopportabile: il dito sanguinava, l’unghia si anneriva, l’osso probabilmente si era spezzato, il male non diminuiva ma aumentava. La situazione cominciò a peggiorare rapidamente già dal primo giorno. Presumibilmente vennero mobilitati tutto lo stuolo e l’armamentario della sezione medica che convergeva e agiva all’interno della Corte: una sessantina di persone guidate dall’archiatra Antoine d’Aquin, laureato alla scuola di Montpellier, con tanto di sostituto perpetuo, otto medici a rotazione, quattro esperti nelle arti della chimica, due studiosi del corpo umano e delle sue funzioni fisiologiche, due versati in anatomia e due ritenuti il meglio possibile nell’impiego terapeutico delle erbe e dei vegetali in genere. Poi chirurghi, farmacisti, infermieri, sedicenti curatori e qualche accreditato ciarlatano. Un esercito di esperti, o ritenuti tali, instancabilmente impegnati per la salute del Sovrano, “malato immaginario”, quotidianamente dedito alla crapula più smodata e pantagruelica.
Lully e l’alluce divennero oggetto di consulti ed elucubrazioni tra gli esperti del ramo, mentre la situazione degenerava e il malato, tutt’altro che immaginario, restava praticamente immobilizzato. I vasi sanguigni distrutti non portavano più sangue ai tessuti dell’alluce e il male dilagava, tra atroci sofferenze e un fitto confabulare tra i curanti. La necrosi dei tessuti si espandeva e la terribile diagnosi era inevitabile: cancrena. I rimedi dell’epoca non contemplavano certo l’impiego di antibiotici di là da venire, ma solamente di palliativi più o meno naturali. Probabilmente venne anche preso in considerazione un rimedio allora diffuso e a volte anche efficaci nei casi più disperati: l’applicazione di larve di una particolare mosca, larve che si nutrono esclusivamente del tessuto morto. I minuscoli vermicelli eliminano con precisione millimetrica la parte aggredita dalla cancrena, lasciando intatto il tessuto circostante. Comunque alla fine il togato consesso comunicò a Monsieur de Lully che l’unica soluzione stava nell’amputazione. La risposta non lasciò spazio al dialogo: «Io sono un ballerino, e un ballerino non può fare a meno di due piedi». Morì il 22 marzo di quello stesso anno.
(Corriere.it)