Nel bollettino militare francese si leggeva: «Il 24 giugno, sino dalle 5 del mattino, l’imperatore, stando a Montechiaro, intese il fragore del cannone». L’imperatore era Napoleone III, l’anno il 1859 e il cannone udito dalle imperiali orecchie segnava l’inizio della battaglia di Solferino e San Martino, località tra Brescia e Mantova. Ad affrontarsi erano le forze alleate di Francia e Regno di Sardegna unite contro l’esercito austriaco. In totale quasi trecentomila uomini, oltre trentamila dei quali rimasero sul campo, morti o orrendamente feriti. Fu la battaglia più sanguinosa e spietata dopo quelle condotte da Napoleone Bonaparte. Allo scontro, che per l’Italia significò la fine della Seconda guerra di indipendenza, assistette, nella zona di Solferino, tra le file dei francesi, il trentunenne Henry Durant. Durant si trovava sul posto non per ragioni belliche ma per necessità strettamente personali. Era infatti reduce da una disastrosa esperienza imprenditoriale in Algeria e ora cercava l’aiuto di Napoleone III, bonapartista di sicura fede quale lui stesso era.
Il giovane Henry era nato in Svizzera, a Ginevra, il 28 marzo 1828 da una famiglie molto nota, molto rispettata e di stretta osservanza calvinista. Padre, commerciante, e madre, una signora pia appartenente alla Société Evangélique, si davano instancabilmente da fare in favore dei poveri e dei meno fortunati, e il ragazzo assorbì pienamente questa atmosfera, anche perché la madre era solita averlo accanto nelle visite di conforto, morale ed economico, per i bisognosi. Dopo una carriera scolastica bruscamente interrotta per poca predisposizione allo studio, più tardi Henry assumerà il ruolo di segretario della Union Chretienne de Genève (con presidente Max Perrot), da lui creata nel 1852 insieme con numerosi amici e a somiglianza di consimili Unioni presenti in Europa. Per anni fu assiduo lettore e propalatore della parola scritta nella Bibbia, che portò anche presso i carcerati. A 18 anni aveva già aderito al movimento evangelico, nel cui ambito ebbe modo di esprimere anche la propria fede antischiavista.
Poi lo slancio filantropico ed evangelizzatore aveva perduto slancio, come sottolineò lo stesso Perrot, ed erano subentrati altri interessi, più personali e da imprenditore, culminati nel 1856 con una società nata in Algeria allo scopo, tra l’altro, di fondare un certo numero di villaggi su concessione francese. Solo uno vedrà la luce, tra l’esplodere di epidemie di tifo e di colora. Henry si era ritrovato sull’orlo della bancarotta anche a causa delle spese per un dispendioso e avveniristico mulino con relativa strada di accesso. Aveva allora cercato una via di fuga societaria e come estrema àncora di di salvezza aveva pensato di rivolgersi a Napoleone III.
L’imperatore era in Italia, impegnato nella guerra contro l’Austria. Dunant decise di raggiungerlo. Si mise a inseguirlo tra una battaglia e l’altra attraverso la Pianura Padana. Lo raggiunse nel quartier generale di Cavriana, dove poté incontrare il segretario di Napoleone III e consegnargli il suo ultimo lavoro da scrittore: La rinascita dell’impero di Carlo Magno, ovvero il Sacro Romano Impero con Napoleone III. La risposta, immediata e deludente, arrivò quella stessa mattina del 28 giugno 1859. Con parole cortesi ma che non ammettevano repliche l’omaggio veniva rifiutato. Una questione politica internazionale lo vietava. Quattro giorni prima Dunant era stato attonito e attivo testimone del macello di Solferino.
Nei mesi immediatamente seguenti, a Parigi, Henry tentò ancora la strada dell’imprenditoria e il contatto con i politici, ma ottenne poco o quasi nulla. Si ritirò a Ginevra per scrivere un’accorata testimonianza di quanto aveva avuto la tragica occasione di vedere con i suoi occhi e di fare con le sue mani. Ne nacque Un souvenir de Solférino («ispirato dal soffio di Dio», come affermò). La ferita mortale ancora sanguinava. Il libro uscì nel mese di novembre del 1862 in 1.600 copie «non in vendita», come l’autore volle che fosse scritto, ma da inviare ai potenti della politica e della finanza. Il lavoro suscitò una vasta eco e si impose la ristampa, questa volta in libera vendita, con pagine di esacerbante evidenza, come quella dei feriti ammassati nella Chiesa Maggiore della vicina Castiglione dello Stiviere: «Qui vi è un soldato completamente sfigurato, la cui lingua esce smisuratamente dalla mascella lacerata e fracassata […]. Là giace un altro sventurato, al quale un colpo di sciabola ha asportato parte del volto […]. Un terzo, con il cranio abbondantemente aperto, spira spargendo le sue cervella sull’impiantito». Dunant, con la carrozza presa a nolo, aveva fatto arrivare aiuti di vario genere, tra i quali una scorta di sigari per mitigare il tanfo che ammorbava l’aria, ed egli stesso dava l’esempio soccorrendo tutti, senza badare alla divisa indossata dai combattenti.
Quelle di Souvenir erano pagine vivide e memorabili nella loro icastica crudezza, e coinvolgevano anche la popolazione civile: «La domenica mattina sono riuscito a riunire un certo numero di donne che fecero del loro meglio per soccorrere i feriti […], bisognava assicurare il vitto e soprattutto soddisfare la sete di gente che moriva di stenti e privazioni: bisognava poi pensare alle loro piaghe, alle loro ferite, e lavare dei corpi sanguinanti, coperti di fango, di vermi, e bisognava fare tutto ciò in mezzo a esalazioni fetide e nauseabonde, tra lamenti e urla di dolore, in un’atmosfera bruciante e corrotta. Ben presto si formò un nucleo di volontarie […] e io cercai di organizzare il meglio possibile i soccorsi». Chiese aiuto a una nobile di Ginevra, Valérie de Gasparin, già nota per la sua umanità, mentre associazioni e gruppi religiosi organizzavano i loro interventi. Si formarono comitati e vennero avviate sottoscrizioni.
In Souvenir il riconoscimento al valore umanitario delle donne era totale: quei feriti, sia pure nati in terra straniera, per loro erano “fratelli”. Dunant le pose sugli altari: «Onore a queste creature caritatevoli, onore alle donne!». Esprimerà anche, con forza messianica, la speranza che «i capi militari delle varie nazioni si accordino su alcuni sacri principi di valore internazionale, ratificati da una convenzione che una volta firmata sarà la base per la creazione di Società per il soccorso dei feriti». Il libro fece scalpore e scandalo, squarciando il sipario che celava una realtà ad alcuni ben nota, da molti sospettata ma dalla maggioranza mai considerata (forse per tacitare ingombranti scrupoli e fastidiosi rimorsi di coscienza o per puro disinteresse). Colpì tra gli altri l’avvocato e filantropo Gustave Moynier, il quale decise di incontrare Dunant per saperne di più. Dalla loro unione di sentimenti nacque all’interno della Societé d’Utilité Publique, di cui Moynier era il presidente, il “Comitato dei Cinque”, del quale fecero parte oltre a Moynier e Dunant, anche il generale Gullaume Dufour e i medici Louis Appia (pure lui attivo testimone di Solferino) e Theodore Maunoir.
A Ginevra venne convocata, fortemente voluta da Dunant e Moynier, prima una Conferenza Internazionale, seguita da un Congresso diplomatico, dal quale il 22 agosto 1864 uscirà la Convenzione per il Miglioramento della Sorte dei Feriti in Campagna, sottoscritta dai rappresentanti di numerosi Stati. Nei mesi precedenti Dunant si era dato alacremente da fare in giro per l’Europa al fine di sensibilizzare i potenti e, su sollecitazione del medico inglese J.H. C. Basting, che aveva letto Souvenir, aveva redatto un documento per la convocazione della conferenza ginevrina. L’autonoma pubblicazione del documento irritò gli altri membri del Comitato, e Dunant, per cercare di placare le polemiche interne, affermò che l’incalzare del tempo non gli aveva permesso di renderne edotti i colleghi. L’ultima riunione del Comitato dei Cinque si svolse in un’atmosfera di gelido sospetto.
Il parto della Convenzione venne sintetizzato in dieci punti fondamentali, volti al riconoscimento della neutralità – e quindi della intoccabilità – dei militari feriti, e con loro degli uomini e delle strutture che ne avevano cura. Non solo chi era ufficialmente investito di questa funzione – personale ospedaliero, addetti alle ambulanze, responsabili amministrativi e altri ancora – saranno da ritenersi neutrali, ma anche «i civili che soccorreranno i feriti verranno rispettati e avranno piena libertà d’azione». Venne anche scelto l’emblema che avrebbe dovuto far riconoscere e quindi proteggere gli operatori umanitari: una croce rossa su sfondo bianco, cromaticamente l’opposto della bandiera del Paese ospitante, la neutralissima Svizzera. Era nata la Croce Rossa.
Per Dunant fu una vittoria, ma non significò la personale conquista della serenità: i problemi economici ancora lo assediavano. Vorrà abbandonare il proprio posto, ma ci ripenserà su invito di Moynier. Il lavoro era stato avviato ma certo non finito. Seguì un periodo di alti e bassi: verrà ricevuto dalla regina Augusta di Prussia alla fine della vittoriosa guerra contro l’Austria, primo vero banco di prova della Convenzione ginevrina, sarà riverito ospite di successive Conferenze, ma verrà anche travolto dallo scandalo finanziario del Crédit Genevois, del quale era tra gli amministratori, e sarà salvato dall’intervento economico della sua famiglia. Nel febbraio 1867 lascerà Ginevra per mai più rivederla.
Ridotto in miseria per aver onorato i debiti contratti in precedenza, Henry si rifugerà per mesi in una soffitta di Parigi «vivendo la vita dei più umili e sopportando ogni sorta di privazioni» (così scrisse nelle Memorie). Farà la fame, fino al giorni in cui potrà godere di un lascito da parte di un parente e tenterà nuovamente qualche irrimediabilmente disastrosa iniziativa imprenditoriale. Continuerà a operare in favore del soccorso ai feriti (le occasioni non mancarono, compresi i tragici giorni della Comune di Parigi), e parteciperà a una conferenza a Londra. Ormai era stanco e anche la saldezza mentale cominciava a vacillare. Venne aiutato da una facoltosa vedova, Madame Kastner, di otto anni più anziana di lui, la quale lo ospitò presso di sé, e il fatto suscitò maldicenze, ravvivando il suo senso di isolamento e minandone ulteriormente l’equilibrio psichico.
Dopo la morte di Madame e anni di vagabondaggio attraverso l’Europa, Dunant si stabilì definitivamente a Heiden, presso il lago di Costanza, ossessionato da una sempre più accentuata mania di persecuzione. L’imperatrice Maria Feodorowna di Russia disporrà nei suoi confronti l’accensione di una piccola rendita annuale e così potrà tirare avanti fino al 1901, quando gli verrà assegnato il primo Premio Nobel per la Pace, la cui somma egli diede in gran parte in beneficenza. La morte lo raggiungerà il 30 ottobre del 1910 in una camera d’albergo di Heiden.
(Corriere.it)