La chiamavo “stanza dei dischi perduti”. Era a metà di un corridoio, sulla destra andando verso l’immenso ufficio del Maestro, Signore e Padrone della casa discografica. Una costruzione, questa, che era una cattedrale nel deserto in una landa che non sapevi se era la caricatura di un processo di urbanizzazione oppure ciò che rimaneva di quella che una volta era stata campagna, tra campi arati per il grano e coltivazioni a maggese.
La “stanza” era un ampio locale, interno al grande edificio costruito da poco. Qualche cosa come un ripostiglio di circa 15metri quadrati, senza finestre, con scaffali fino al soffitto appoggiati alle pareti e un divisorio, pure di scaffali, a separare in due lo spazio. Lì, in quella sorta di antro di Barbablù, avevano trovato rifugio dischi mai fatti, dischi programmati, dischi da richiedere e stampare acquistati da cataloghi stranieri, e dischi sui quali recriminare. Questi ultimi, soprattutto, ingombravano il cuore del Signore e Padrone: «È gente che grazie a me si è fatta conoscere. Penso a Gaber, all’Equipe 84, a Gian Pieretti, e soprattutto ai Pooh. Tra l’altro il nome del gruppo l’aveva proposto la mia assistente (Pooh era l’orsetto che di nome fa Winny); ma poi arrivarono le Major, o loro consimili, e così le grandi case discografica con la forza incontrastabile dei contratti me li portarono via».
Un giorno, in forza del mio ruolo di consulente per alcune collane, varcai quella un poco misteriosa porta. Là dentro c’erano decine e decine di 33 giri (il CD era di là da venire). C’erano i “lasciti” dei transfughi irriconoscenti, c’erano moltissimi reperti di cataloghi esteri mai liberati dal cellophane (Folkways, Lyricord, Nonesuch, Reprise…), e c’era un disco che colpì il mio interesse: Modern Art Trio. Jazz attuale, forse futuribile, comunque “di giornata”, con Franco D’Andrea, pianoforte e sax; Franco Tonani, batteria, tromba, tinwhistle; Bruno Tommaso, contrabbasso.
Decisi che una ristampa sarebbe stato il caso di affrontarla, a patto di affrontare prima chi gerarchicamente era mio dovere affrontare. Chiesi udienza al Maestro. Lo trovai nel suo immenso ufficio, sprofondato nella poltrona girevole degna di un ammiraglio a bordo di una portaerei. Gli esposi il mio piccolo progetto, sottolineando come il relativo master fosse già in casa, e quindi niente impegni da parte di tecnici e blocco della sala di registrazione. Andava solo controllato il nastro e, se era il caso, ripulito. La nota di copertina l’avrei scritta io, facendola rientrare nel compenso mensile. Il Capo abbozzò una banale resistenza: «il jazz non si vende… adesso mi sto impegnando nella canzone… con la collana di Leydi guadagno solo prestigio culturale e poco altro… rieditare un 33 giri implica sempre un esborso… chi mi garantisce…». Girava gli occhi su e giù, cercava una giustificazione indeflettibile, si vedeva che avrebbe voluto troncare ogni discorso, impedirmi di replicare… Non fu facile, ma la spuntai. Azzardai anche una bonaria speranza: «Potrebbe essere il primo Lp di una serie dedicata al jazz italiano». Avevo gettato le basi della futura New Jazz Collection: pochi numeri ma succosi. Era il 1978.
Il disco venne ristampato e distribuito. Non so quanto vendette, so che ne nacque una sincera amicizia con Franco. Più di una volta incontrai la sua famiglia: moglie ospitale e veramente simpatica, figlia allegra e piccolina, con lo stesso nome della mia. Lui un vero signore, consapevole di sé ma non debordante, non supponente. Mi rilasciò una lunga intervista per il mensile Strumenti Musicali e accettò bonariamente di tenere un concerto di solo pianoforte nella sala degli Evangelici in via Borsieri. Lo strumento era un mezza-coda Yamaha, a carico – trasporto e accordatura – della ditta Monzino, altra mia fonte di mensile compenso (a quell’epoca vantavo cinque “committenti”: oltre a Monzino, anche Musica e Dischi, Rai di Torino, classica per la Pdu di Mina, Vedette con Albatros). Registrai la serata, e solamente a casa scoprii che il registratore mi aveva tradito in favore di un cupo e beffardo rumore di fondo.
Intanto Franco aveva formato un nuovo trio, con cui aveva suonato anche a Varsavia. Mi aveva spedito una cartolina, che ancora conservo, e al rientro mi aveva omaggiato del nastro del concerto. Pensai che avrei potuto farne qualcosa di buono. Portai il nastro alla sede italiana dell’importante multinazionale Wea, che lo pubblicò su etichetta Atlantic con titolo From East to West. Sulla busta interna (quella che qualcuno irrispettosamente definisce “mutande”) c’era un ringraziamento rivolto alla mia persona.
Come spesso accade ci perdemmo di vista. Lui andò verso la meritata fama europea, tra concerti, dischi, cattedre, riconoscimenti, premi e altro ancora; io verso la più stringente e altalenante professione giornalistica.
PS. Venerdì 30 aprile 2021 il Blue Note di via Borsieri decide di dedicargli, per il suo ottantesimo compleanno, una serata: “Carta Bianca a Franco D’Andrea”, in streaming su Internet. L’imbranato sottoscritto non riesce a collegarsi. Recupero per un colpo di fortuna l’indirizzo della mail, e il giorno dopo scrivo: «Caro Franco, ieri ho cercato vanamente di collegarmi con Internet per Carta Bianca dal Blue Note… ma invano. In questo genere di comunicazione elettronica sono – e sempre sarò – all’asilo. Comunque, tanti auguri per i tuoi otto decenni pieni di riconoscimenti e – ne sono certo – di soddisfazioni.» A stretto giro di mail Franco risponde: « Carissimo Alberto, non sai quanto mi faccia piacere la tua mail. Ricordo le nostre avventure con la ristampa del Modern Art Trio, che tu hai reso possibile. E ricordo la collana Albatros, che mi diede l’occasione per approfondire i miei studi sul ritmo e sulla musica africana. Te ne sono enormemente grato». Una morale? I decenni non corrodono l’amicizia.