Il giorno 30 gennaio del 1953 James Watson si trovava nel suo laboratorio di Cavendish, a Cambridge, quando la porta si aprì e fece capolino Maurice Wilkins, del King’s Collage di Londra. Entrambi, come altri, erano impegnati a risolvere il complicato rebus della struttura del Dna (acido desossiribonucleico) e della sua capacità di replicarsi infinite volte. Geni, genoma ed ereditarietà stavano entrando nel vocabolario comune. Il tempo stringeva, perché in ambiente scientifico si era sparsa la voce relativa alla teoria, messa a punto di Linus Pauling, futuro Nobel per la chimica, e da Robert Corey: l’ipotesi parlava di un’elica formata da tre filamenti con i fosfati in posizione centrale. Era imminente la pubblicazione ufficiale, con tutti i crismi dell’autorevolezza su una rivista del settore di grande prestigio.
Quel giorno Watson si era appena rintanato tra le mura amiche, reduce da uno scontro con Rosalind Franklin perché reo di essere entrato nel laboratorio del King’s, dove Rosalind trascorreva moltissime ore, senza bussare. Rosalind, che come sempre era intenta a lavorare su una fotografia presa ai raggi X, lo aveva fulminato con una delle sue proverbiali occhiate. Poi avevano aspramente discusso sull’ipotesi di Pauling, con annessi e connessi. Watson aveva addirittura temuto di beccarsi uno schiaffo, benché Rosalind fosse di corporatura esile e di statura non certo sopra la media. Rientrato nella sua “tana” al Cavendish, al giovanottone americano (che nonostante l’atletica corporatura era sempre a disagio davanti all’altro sesso) si era palesato il collega, superiore in grado alla poco socievole ragazza.
I due, Wilkins e Watson, si confortarono a vicenda a proposito dell’intrattabile Rosalind. Anche i rapporti di Wilkins con la giovane ricercatrice non erano proprio idilliaci, nonostante qualche sussurro sostenesse il parere opposto, prospettando addirittura qualche cosa che travalicasse la semplice collaborazione sul lavoro. Wilkins era un signore elegante e di piacevole aspetto. Qual giorno, mentre la Franklin era impegnata caparbiamente con le sue fotografie ai raggi X, delle quali era indiscussa maestra, e nella stesura di alcuni articoli, Wilkins alla fine mostrò al collega quella che diventerà la «famosa» fotografia 51, scattata da Rosy qualche tempo prima. Maurice l’aveva avuta dall’aiutante della ragazza, Raymond Gosling, che aveva ritenuto proprio dovere mostrarla al vicedirettore dell’équipe della quale faceva parte. La Franklin era all’oscuro di questo passaggio e anzi si era già lamentata del fatto che qualcuno avesse rovistato nella sua scrivania.
Wilkins tirò fuori la foto a sostegno della propria opinione su Rosy, così chiusa in sé e gelosa del proprio lavoro al quale si dedicava con cieca dedizione. Non pensava certo che il suo gesto avrebbe segnato una svolta nella storia della conoscenza, non solo del genere umano ma della vita sulla Terra in generale. Watson al contrario comprese immediatamente la fondamentale importanza che l’immagine custodiva. La “51” rappresentava la cosiddetta forma B del Dna (l’altra forma era definita come A) e si rivelerà il passo fondamentale per arrivare a comprendere che la struttura della molecola era un’elica, costituita dalle due forme tra loro intrecciate. Scriverà: «Come vidi la foto rimasi fulminato e sentii che il cuore si era messo a battere forte”.
Dopo avere cenato insieme in un locale di Soho, in treno Watson buttò giù sul bordo di un giornale uno schema di come avrebbe potuto effettivamente essere il Dna. Pensava ancora a una triplice catena elicoidale ma, all’atto di entrare in casa, tutto gli apparve più chiaro: le catene erano due. La foto 51 lo diceva chiaramente. Il 7 marzo del 1953, Watson, insieme con il fido Francis Crick, suo sodale al Cavendish, realizzarono il primo attendibile modello di Dna, costruito, per ammissione dello stesso Crick, in base ai dati di Rosalind Franklin. Quello stesso giorno Wilkins fece sapere a Crick che «la nostra Dark Lady ci lascerà la prossima settimana». In quel laconico messaggio si indovinava una nota di sollievo.
La scoperta venne riportata da Watson e Crick sulla “bibbia” scientifica Nature del 25 aprile 1953, in un articolo che è storia: «L’appaiamento da noi ipotizzato prospetta un possibile meccanismo di replicazione del materiale genetico». La 51 aveva dato i suoi aurei frutti e John Desmond Bernal, pioniere nella diffrazione dei raggi X, definirà la fotografia della Franklin come «la più bella immagine ai raggi X di una sostanza». Era vero.
Rosalind aveva sviluppato una tecnica ineguagliata e ineguagliabile in questo ambito della ricerca: sapeva trattare il materiale da esaminare, sapeva procurarsi e allestire le apparecchiature necessarie, sapeva come usare la fotografia, sapeva come interpretarla. Un bagaglio di esperienze e di conoscenze senza pari. Al King’s Collage lavorava per ore nel suo antro senza indossare il camice di piombo per proteggersi dai raggi X, e benché la scienza allora non ne conoscesse tutta la negatività sull’organismo, chi entrava là dentro se ne stupiva, ma lei ribatteva che «il lavoro è più importante di ogni altra cosa».
Rosalind Elsie Franklin era nata il 25 luglio 1920 nel quartiere di Notting Hill a Londra, in una famiglia ebraica di stretta osservanza e appartenente alla buona borghesia. Il padre, Ellis, aveva lo stampo del vero patriarca mentre la madre, Muriel, divise l’amore della figlia con la tata, Annie. Il ceppo originario era arrivato in Inghilterra dalla Slesia nel 1763, con il cognome di Fraenkel subito mutato in Franklin. Nell’Ottocento era iniziata la fortuna finanziaria e con questa l’ascesa sociale, con posti di rilievo in ambito bancario e attività editoriali sviluppatesi anche nel secolo seguente. Del clan facevano parte rabbini e intellettuali. Poco prima della nascita di Rosalind, lo “zio Herbert” (in realtà un prozio) venne insediato in qualità di alto commissario britannico della Palestina, primo passo di una brillante carriera politica.
La piccola Rosy si mostrò subito particolarmente dotata, tanto che la zia Helen la definì «alarming clever», paurosamente intelligente. Non era proprio un ammirato complimento ma nascondeva una certa apprensione in quella società maschilista non era infatti normale che l’unica figlia femmina fosse più in gamba dei maschietti. In totale i piccoli erano cinque. La carriera scolastica della ragazzetta si dipanò con inevitabile successo. Non solo nelle materie di studio (soprattutto la matematica) ma anche nello sport. Rosalind imparò il tedesco e benissimo il francese. Vinse medaglie e ottenne attestati. Il primo ciclo di studio terminò con lode alla St Paul’s Girls’ School. Fu poi la volta del Newnham Collage di Cambridge, dove si susseguirono i successi e si affinò l’interesse di Rosalind per la scienza, in particolare la chimica. Ci fu la Seconda guerra mondiale e il suo impegno civile e scientifico: i primi lavori portarono la ragazza alla laurea in chimica avente per oggetto il carbone.
Quindi, nel ’47, la Francia, dove Rosalind apprese e ampliò la tecnica dell’uso della diffrazione ai raggi X. Da qui, nel 1950, il passaggio al King’s Collage nell’Unità diretta da John Randall, che aveva come vice Wilkins. Fu l’inizio dello studio sul Dna. La mancanza di comunicazione costituì l’origine dei primi dissapori con i collega e diretto il superiore Maurice Wilkins, ma non solo con lui. Il modo di fare di Rosy: diretto, spesso un poco rude e spigoloso, conciso e a tratti sarcastico, le rese sgradevoli i mesi passati al King’s, che però lei seppe sfruttare a iniziare dalla messa a punto della duplice elica del Dna: forma umida (B) e asciutta (A).
Quegli anni e quelle esperienze saranno oggetto di un libro di successo pubblicato da Watson nel 1968, The Double Helix (La doppia elica), nel quale alla Franklin verrà riservato poco spazio e parecchie critiche sul lato umano: la terribile Rosy, l’intellettuale irascibile che avrebbe anche potuto apparire graziosa se non avesse avuto l’autolesionistica abitudine di indossare brutti occhiali e avesse saputo tenere in ordine i capelli. In realtà di Rosalind Franklin, che dopo il King’s era passata al Birkbeck College, si era praticamente persa la memoria, pur avendo continuato indefessamente le proprie ricerche, soprattutto concernenti la molecola del tabacco, come si poteva evincere da un articolo apparso su Nature nel 1955.
Nel 1962 il trio Watson, Crick e Wilkins ottenne il Premio Nobel per la medicina in forza delle ricerche sul Dna. Di Rosalind Franklin si era smarrita ogni traccia. Misoginia? Antifemminismo? Censura di genere? In verità il regolamento del Nobel non ammetteva il conferimento del premio a persone non in vita, ma qualche cenno avrebbe potuto essere fatto. D’altra parte le lunghe ore passate esposta ai raggi X nel suo laboratorio avevano da tempo presentato a Rosy il conto: tumore alle ovaie. Rosalind lottò e lavorò fino all’ultimo. Morì il 16 aprile 1958 nel quartiere londinese di Chelsea.
(Corriere.it)