Nel numero del 7 novembre 1927, il settimanale Saturday Evening Post pubblicò un lungo articolo: “The Seeing Eye“, l’occhio che vede. Iniziava così: «Penso che si crei sempre un’aura particolarmente toccante alla vista di un cieco. Privato della sua forza e della sua indipendenza, il cieco è esposto a tutta l’emotività che il suo stato induce e si trova alla mercé di ogni persona con la quale viene in contatto. L’emotività, soprattutto, costituisce un impedimento quasi insuperabile con cui confrontarsi nella lotta verso una vita che sarà diversa, perché la vita, volente o nolente, deve andare avanti e bisogna fare i conti con la nuova realtà»». La firma era della filantropa e animalista statunitense Dorothy Harrison Eustis.
Dorothy Harrison, una piccola e grigia donna di 41 anni, dall’aspetto e dalla volontà di una indomita suffragetta di Filadelfia, aveva inviato quella corrispondenza dalla Svizzera, dai dintorni di Vevey, dove si era trasferita e si era risposata con George Morris Eustis, dopo la scomparsa del primo marito. In Patria aveva condotto nella propria fattoria appassionate ricerche genetiche aventi per oggetto la possibilità di aumentare la produzione di latte, e ora la signora si stava dedicando, nel centro da lei battezzato Fortunate Fields, con uguale dedizione e puntiglio all’allevamento di cani (la sua passione) destinati a impieghi civili. Non cani qualunque, ma pastori tedeschi, destinati a essere arruolati dalla polizia o dalla Croce Rossa.
L’articolo della Eustis traboccava ammirazione ed entusiasmo, sentimenti nati in lei dopo una visita nel centro di addestramento di Potsdam, dove si insegnava a quegli animali – scelti tra esemplari «giovani, pieni di salute, tranquilli, dai nervi saldi e mansueti» – a svolgere il delicato compito di inseparabile guida per i reduci che nella follia della Prima guerra mondiale avevano perso la vista. Il centro era organizzato con precisione e puntiglio germanico, tra comodi dormitori per i portatori dell’handicap, cucce accoglienti per i cani, alloggi per gli addestratori, e un grande parco che entro i suoi confini proponeva il catalogo di gran parte degli ostacoli che è prevedibile incontrare nella vita di tutti i giorni: marciapiedi, gradini, ponticelli, buche, attraversamenti, impalcature, pali della luce, pozzanghere, cespugli, segnali di vario genere e altro ancora. «È poco meno che meraviglioso come un cane qualunque dopo quattro mesi in quella scuola si trasformi in un cane guida: è un miracolo come l’animale faccia proprie tutte le istruzioni ricevute». Diventerà «la spada e lo scudo» del suo amico bipede.
L’animale impara a raccogliere ciò che al compagno cade a terra, a non inseguire un micio e a non azzuffarsi con un suo simile, a sedersi e alzarsi a comando, a comunicare attraverso la maniglia della bardatura che indossa, a ubbidire ma anche a disubbidire se gli viene impartito un ordine pericoloso per l’incolumità di chi gli è affidato, a camminare in mezzo al marciapiede, ad attraversare la strada seguendo il percorso più breve, a non infilarsi sotto uno steccato, a non farsi distrarre dal traffico, a fermarsi davanti a un gradino per permettere all’uomo di esplorare il percorso con il bastone, a camminare a passo regolare… Impara pure ad affrontare gli imprevisti, di fronte ai quali manterrà la calma e saprà come comportarsi: «Deve sempre essere allerta e protettivo, ma mai aggressivo, e questo perfetto equilibrio è la chiave del successo della scuola di Potsdam».
Il momento del passaggio dall’addestratore a quello che sarà d’ora in avanti il suo inseparabile compagno è forse il più delicato, è il momento della verità, quello che dirà se tutto il lavoro svolto raggiungerà lo scopo prefissato. «Il problema è dare il cane giusto all’uomo giusto, perché temperamenti differenti e differenti personalità esigono trattamenti diversi, ma quelli dell’uomo e dell’animale hanno l’obbligo di integrarsi». Spesso l’uomo in precedenza non ha mai avuto contatto con un cane.
Il terzo protagonista, l’addestratore, dopo quattro mesi di vita in comune con l’animale, è chiamato a svolgere sempre una funzione imprescindibile, abituando poco per volta il cane al difficile passaggio, che l’animale all’inizio non comprende, mentre il nuovo componente della coppia si abitua all’inusitato compagno di vita e di viaggio, spazzolandolo ogni giorno, facendolo dormire accanto al suo letto, dandogli da mangiare, parlandogli per abituarlo alla propria voce. Anche l’uomo inizialmente può manifestare timore, impaccio e imbarazzo. Ma durerà poco: «Mai dimenticherò il cambiamento di quella persona che vidi uscire dal cancello. Fu come se davanti ai miei occhi fosse avvenuta una trasformazione totale. Prima era un incerto e titubante uomo cieco che tastava la strada con il bastone, ora era un individuo tranquillo, che con il cane al fianco e la testa alta mi veniva incontro veloce e sicuro». I due impareranno a muoversi insieme nel traffico della città e nei locali pubblici, a “parlarsi” con la voce, con gli atteggiamenti e per il tramite della grossa maniglia che li renderà un essere unico e indivisibile, legati da quel mutuo patto che afferma «tu fai la tua parte, io faccio la mia».
In quello stesso mese di novembre del 1927, nel salotto borghese di una casa di Nashville, nel Tennessee, il ventenne Morris Frank ascoltò la voce del padre mentre gli leggeva l’articolo del Saturday Evening Post. Morris era cieco. All’età di sei anni aveva perduto un occhio per un incidente mentre andava a cavallo, poi a 16 anni, a causa di un pugno ricevuto durante un incontro di boxe tra studenti, si era ritrovato anche con l’altro oscurato per sempre. Ora aveva un accompagnatore umano, con il quale non andava d’accordo. Frequentava la Vanderbilt University e faceva l’accordatore di pianoforti, ma voleva avviarsi alla professione di assicuratore. In verità era una persona triste e spaventata. Quando il padre John ebbe finito di leggere, Morris sbottò: «Voglio uno di quei cani!». Scrisse alla Eustis, che dopo tre mesi rispose: non istruiva cani guida, ma se il ragazzo ci stava, avrebbe potuto incominciare, procurandosi l’animale e un istruttore di provate capacità.
Morris Frank arrivò a Fortunate Fields dopo un viaggio per nave durante il quale si era sentito letteralmente prigioniero del cameriere che, a scanso di problemi, lo teneva segregato in cabina. Incontrò la Eustis, e fu subito simpatia; incontrò l’istruttore e provò fiducia; ma soprattutto incontrò la sua futura guida a quattro zampe: una femmina di pastore tedesco alla quale avevano dato il poco credibile nome di Kiss, bacio. Per prima cosa le cambiò nome, scegliendo quello meno impegnativo di Buddy, che è il nomignolo che ci si dà tra compagni di lavoro. Sarà poi lo stesso Morris a descrivere quell’incontro fondamentale per il suo futuro e per quello di molti non vedenti: «Sentii aprire la porta e avvertii il leggero calpestio delle zampe sul pavimento. Le offrii un boccone di carne trita e mentre lei l’accettava dignitosamente, mi inginocchiai e la diedi dei colpetti sulla schiena, carezzandole dolcemente il pelo soffice e setoso. Era una meraviglia! Era in suo potere offrirmi il dono divino della libertà! Sentii salire in me un’ondata d’affetto!». Ebbe così inizio l’amoroso sodalizio tra uomo e animale.
Rientrato in Patria e convinto di avere il dovere di assolvere a una nuova missione, Morris iniziò a girare il Paese per mostrare quanto un cane potesse fare per un non vedente, quanto fosse indispensabile promuovere la possibilità che ogni essere umano nelle sue condizioni potesse averne uno, quanto questi animali andassero protetti e facilitati nel loro compito, ad esempio permettendo loro di frequentare tutti i luoghi pubblici, quanto un cane avrebbe potuto restituire al suo compagno la dignità di vivere. Ne parlò con calore anche davanti a un commosso uditorio di oltre settemila membri del Lion’s Club International. Poi, insieme con Dorothy Harrison Eustis, fondò nel 1929 il centro The Seeing Eye, primo di quel genere negli Stati Uniti e da allora modello universale per l’addestramento dei cani guida. Comunicò all’amica per telegramma che l’impresa era riuscita. Una sola parola: «Successo!».
(Corriere.it)