Storia

10c Lo scorbuto e lo sciamano

Inverno 1535-1536. Nei pressi dello stanziamento indiano di Stadacona, non lontano dall’attuale città di Montreal, in Canada, tre velieri rimasero bloccati dai ghiacci che avevano reso impraticabile le acque del fiume San Lorenzo. Le navi formavano la spedizione di Jacques Cartier, per la seconda volta inviato da quelle parti su incarico del re di Francia Francesco I, ansioso di trovare il passaggio a nord-ovest che lo avrebbe portato «alla scoperta di isole e di terre dove si dice ci siano enormi quantità d’oro». Cartier era partito in maggio, aveva costeggiato Terranova, già esplorata un anno prima, poi si era trovato assediato dall’inverno nell’accampamento fatto erigere ai suoi. Forse se lo aspettava, forse no: certo non si aspettava che lo scorbuto aggredisse gli equipaggi, indifesi contro quel male noto da secoli ma ancora misterioso. Dei 110 marinai, 25 morirono entro poche settimane e tutti gli altri, tranne due, si ammalarono.

Avrebbe potuto finire come tante altre volte; come nel 1520, quando l’equipaggio di Ferdinando Magellano, durante la circumnavigazione del globo, venne falcidiato da un indomabile scorbuto. Cartier però aveva l’asso nella manica: l’amicizia con il capo degli indiani Irochesi, Donnacona. Anche tra gli indiani lo scorbuto mieteva qualche vittima, ma i nativi sapevano come difendersi. Il capo mostrò a Cartier un albero, che la sua gente chiamava annedda e  dal quale si ricavava per bollitura una specie di birra in grado «di scacciare gli spiriti maligni» che avevano generato il male. In realtà lo scorbuto era conseguenza di una perniciosa carenza di vitamina C, indispensabile per l’integrità del tessuto osseo, del connettivo, della dentina e per l’assorbimento del ferro (da cui i bassi livelli di emoglobina nel sangue e lo stato di spossatezza fisica dei malati). Cartier seguì le indicazioni del capo e il resto dei suoi uomini si salvò. Si manifestò così il sospetto che l’alimentazione potesse entrare in qualche modo in gioco.

Sulla vera identità della salvifica pianta regnò sempre l’incertezza. Nel 1882 in una nota, apparsa nei Proceedings of the Academy of Natural Sciences of Philadelphia, il famoso botanico Thomas Meehan, già a capo dei Kew Gardens di Londra, sottolineava come John Ray nella sua Historia plantarum del 1686 propendesse per attribuire la beneaugurante qualifica di “Arbre de vie” (Arbor vitae), assegnata da Francesco I alla pianta portata in Francia proprio da Cartier, alla Thuja occidentalis. D’altro parere il biologo e naturalista Constantine Samuel Rafinesque, per il quale l’Arbor vitae era l’abete bianco (Abies alba); questo studioso aggiungeva, per meglio accreditare la sua ipotesi, che la pozione contro lo scorbuto si otteneva facendo bollire foglie e germogli della pianta insieme con sciroppo d’acero. Nessuno allora lo sapeva, ma tuja e abete erano accomunati dal contenuto di vitamina C; però la grande famiglia delle vitamine comincerà a essere scoperta solo a partire dal 1911. 

La questione botanica ai marinai sparpagliati sui mari del mondo ben poco interessava. Interessavano i risultati. Sui quali per lunghi anni aleggiò il dubbio, compagno scomodo della speranza, fino a quando nel 1747 un medico scozzese, James Lind, imbarcatosi sul Salisbury condusse una documentata ricerca sullo scorbuto e sulla sua possibile terapia. Davanti all’inevitabile manifestarsi del male (del quale aveva analizzato puntigliosamente i sintomi), Lind decise di dividere i malati in diversi gruppi, caratterizzandoli dal punto di vista dell’alimentazione. Il gruppo al quale venne somministrata una dieta che prevedeva consumo di arance e di limoni (ricchi di vitamina C, in quanto sull’efficacia di quei frutti già erano affiorati sospetti) in breve tempo vide regredire i sintomi e tornare le forze. Di lì a non molto ne farà tesoro l’esploratore James Cook, con congrue scorte di agrumi e del loro succo da portare nelle sue peregrinazioni della seconda metà del secolo.

A nemmeno cinquant’anni dallo sbarco di Colombo, l’episodio del 1536 segnò una data di riferimento, sia per la futura ricerca sulla cura dello scorbuto, che in epoca elisabettiana (XVI secolo) nella marina britannica causò circa diecimila vittime, sia per la vicenda dei difficili rapporti tra la medicina occidentale e la pratica terapeutica dei nativi americani. In seguito, l’aumento della popolazione che arriverà dal Vecchio Mondo, la progressiva conquista di nuovi territori in Canada e negli Stati Uniti, la diffusione di singoli individui e di comunità piccole e grandi (cacciatori di pellicce, cercatori d’oro, famiglie di coloni, marinai d’acqua dolce, boscaioli, giocatori d’azzardo, sette religiose, mandriani, militari) renderanno sempre più frequenti gli “incontri” con la sapienza terapeutica dei nativi, alla quale, anche perché altri riferimenti non saranno a portata di mano, a volte sarà quasi inevitabile affidarsi. La pratica si mostrerà ancora più utile dopo la Guerra d’Indipendenza delle colonie inglesi dalla Corona britannica (anni 1775 -1782), con il conseguente allontanamento dall’influenza della lontanissima Europa. 

Più tardi, nell’Ottocento, non mancheranno casi eclatanti, che mostreranno come gli “stregoni” non fossero solo selvaggi buffamente addobbati e dediti a grottesche pratiche “magiche” ma a volte anche attendibili curatori; come quando William Bent, commerciante e allevatore di riconosciuta fortuna e uguale fama, venne salvato da un’infiammazione alla gola che lo stava soffocando grazie ad applicazioni di succo di morella (Solanum) mischiata con midollo di bisonte, una cura dovuta all’intervento dello stregone degli Cheyenne con i quali Bent si era imparentato sposando la figlia del capo; oppure quando il principe tedesco Massimiliano di Wied-Neuwied, etnologo e naturalista, nel 1843 sfuggì alla morte per scorbuto ingerendo massicce dosi di aglio selvatico crudo (vitamina C), come aveva suggerito l’indiano che lo aveva accompagnato a Fort Clark.  

Nel corso dei decenni, oltre duecento “rimedi indiani” sono entrati a far parte, per una più o meno lunga permanenza o per rimanervi ancora oggi, nella United States Pharmacopeia, il riferimento farmacologico ufficiale degli Stati Uniti d’America. Edito per la prima volta nel 1820 è da allora pubblicato e aggiornato sulla base di precisi e ineludibili standard, con cadenza regolare e sotto il controllo della United States Pharmacopeial Convention. Via via sono apparsi anestetici, narcotici, stimolanti, astringenti, catartici, emetici, febbrifughi, vermifughi, ipnotici e altro ancora, per curare malanni di varia natura: diabete, idropisia, otite, epilessia, gotta, problemi respiratori, problemi alle vie urinarie, febbri, irritazioni oculari, reumatismi, malattie della pelle, problemi digestivi. Accanto a questi, gli indiani conoscevano anche tecniche per affrontare problemi di carattere che oggi chiameremmo infortunistico: fratture, distorsioni, ferite, bruciature, congelamenti. Va anche sottolineato il fatto che il buon esito di molti interventi “stregoneschi” trovava la psicologica collaborazione da parte dei pazienti, i quali nutrivano piena e cieca fiducia nel loro “medico” e nelle sue pratiche: un elemento oggi ritenuto di importanza non secondaria anche nella medicina occidentale, dove il rapporto medico-paziente si sta orientando verso una sempre più proficua counseling. 

(Corriere.it)

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