Il suo arrivo è preannunciato da una telefonata. «Ti mando un folksinger argentino. Mi sembra abbastanza interessante. Vedi un po’ se si può cavarne un disco». All’altro capo del filo c’è il nostro esperto di blues, e del suo giudizio mi fido. Il giorno dopo ecco comparire nel vano della porta dello studio della casa discografica dove lavoro tre pomeriggi alla settimana, il folksinger argentino. Alto, capelli neri e lunghi che gli ricadono sulle spalle, un maglione girocollo nonostante sia un mese di luglio da caldo infernale, jeans consunti e flosci come una bandiera in una giornata dimenticata dal vento. Ai piedi porta un paio di sandali; anzi due paia, perché le calzature sono di modelli differenti. Non indossa calze. Inevitabilmente nella mano sinistra stringe il collo di una chitarra, al momento inutile perché priva di corde.
«Salve, vieni avanti». Lui si muove con passi lunghi, a compasso, quasi dovesse evitare invisibili pozzanghere. Si presenta: «Mi nombre es Alberto». «Anch’io mi chiamo Alberto», e la presentazione sembra conclusa. Ma la combinazione lo manda in visibilio. Si mette a gridare: «Tocayo… tocayo… usted es mi tocayo!», tocayo in spagnolo significa “omonimo” e questa consonanza di nomi di battesimo è da lui interpretata come un segno del destino, come un beneaugurante viatico verso la realizzazione predestinata del disco futuro.
Si mette a parlare come un forsennato, senza mai concedersi, e concedermi, un po’ di fiato: è da mesi che gira per l’Italia, in Argentina conosce di persona l’eternamente preannunciato premio Nobel Jorge Luis Borges (condizione comune, almeno a parole, di tutti i veri figli delle Pampas), è stato a Cuba e poi a Parigi, il suo repertorio vanta un centinaio di canzoni, e mi farebbe sentire subito qualche cosa ma la chitarra è al momento “muta”…
Gli procuro le corde, che lui sistema e accorda con professionale perizia. Poi attacca: «Duerme duerme negrito, che tu madre es nel campo». Conosco la canzone e lui effettivamente la canta piuttosto bene. Sta ancora cantando quando nella stanza irrompe il Maestro, il Signore e Padrone di tutta la baracca, magazzino e faraonica sala di registrazione compresi. «Che sta succedendo qui?»: il tono e lo sguardo mostrano già i sintomi di un poco celato turbamento e molto nervosismo. Lo tranquillizzo: «C’è un amico argentino che mi fa sentire qualche canzone del suo paese». Ci guarda entrambi con occhio torvo perché ha recepito la novità che un disco, del quale non gli ho mai fatto cenno, sta entrando nella catena di montaggio. Uno dei tanti dischi che «non si vendono manco a regalarli». «Va be’», borbotta tra i denti, e scompare.
L’amico, dopo una breve pausa interrogativa, mi chiede chi sia quella persona e, avuta conferma che è uno che lì dentro conta molto, mi parla di sé. Della sua passione per la musica e il canto che gli è nata da bambino, dei figli ormai grandi e indecisi sul destino da dare alla propria vita, della moglie dalla quale si è separato da un tempo ormai immemore, e della sua nuova compagna aspirante giornalista, una signora «dulce dulce, como azúcar», che sa sopportarlo, che emana candore e bontà. Insomma, il giovanotto di secondo pelo ricorre a tutte le astuzie dell’imbonimento verbale per convincermi che è lui l’uomo che fa al caso mio, e soprattutto a quello del Maestro. Ha vinto. Mi faccio forza ed entro nel megaufficio del Padrone e Signore. Gli espongo la faccenda, caldeggiando con tatto, e molto apparente buonsenso, la causa del mio tocayo. Lui sta a sentire ed è tutt’altro che convinto, ma nel nome della nostra amicizia concede una attenuante generica… «Quanto vuole come anticipo?», chiede con leggero tono di sofferta generosità. «Cento dollari», azzardo. «Va bene, ma non domani: subito! Domani abbiamo ben altro da fare. C’è il Quartetto. Adesso accompagnalo giù in sala di registrazione, presentalo a Paolo e poi lascia che si arrangino».
Lo faccio, ma prima di varcare la soglia del Paradiso, cioè della succitata sala, il tocayo chiede di andare a ritirare le sue cose, quelle che ha abbandonato presso una delle entrate laterali, là dove c’era un cagnone che gli aveva leccato i piedi scalzi. Torna subito con un pesante zaino, dal quale occhieggia il collo di un fiasco, pronubo di ancora inespresse complicazioni. «Vino… buono… tinto», spiega, illuminandosi di un sorriso a 32 denti. Tinto significa vino rosso. Ho un brutto presentimento, ma lascio perdere. Presento Alberto a Paolo e, accompagnato da un vivace e speranzoso «ciao ciao», rientro nel mio studio per dedicarmi alle note di copertina di un Lp.
Dopo un’ora piomba da me il Maestro, con gli occhi sbarrati e la faccia in tempesta. «Vai giù a vedere che cosa sta combinando il tuo amico! Io non vengo perché non voglio nemmeno vedere!». Mi precipito, e trovo Paolo che ride come un matto scuotendo la testa, e lui, Alberto, il mio tocayo, precariamente appoggiato alla parete dello studio, davanti alla console brulicante di tasti e manopole, mentre palleggia il fiasco tra una mano e l’altra. Il fiasco, naturalmente, è vuoto come le tasche di un pinguino nudo. «Abbiamo registrato due pezzi», mi comunica Paolo, sempre piegato in due dal ridere. «Poi non ce l’ha più fatta… continuava a chiedermi di andare in bagno. Io pensavo alle normali necessità fisiologiche, invece era per continuare a baciare il fiasco. Già prima deve essere stato molto prodigo di baci…».
Contrariamente a quanto dichiarato, improvvisamente irrompe il Maestro. È calmo, di quella calma che non ammette domande o dialogo ma solo l’esecuzione immediata e totale di ordini ben precisi. «Levamelo dai piedi!», sbotta guardandomi, «gli darò venti dollari e il nastro che ha registrato, ma non voglio mai più sentirne parlare, mai più vederlo qui». Con l’aiuto di Paolo ficco la testa di Alberto sotto la doccia del piccolo bagno annesso allo studio, poi trascino fuori quello che resta del mio tocayo e lo stendo nel prato. Gli metto in mano i venti dollari e di fianco lo zaino e il nastro. Cerco di spiegargli come sono andate le cose, che del disco per adesso non se ne fa nulla, che per ora deve accontentarsi di quello che gli ho dato. Lui scuote la testa ridendo. Torno al mio lavoro. Dopo circa mezz’ora vado a dare una controllata. Non c’è più, al suo posto trovo il cane che gli aveva leccato i piedi.
Passano alcuni giorni. Squilla il telefono: è lui che mi chiama da Roma. «Ciao tocayo. Como va. Jo quiero grabar otro disco…». «Ci risiamo», penso sconsolato. Gli rispiego come stanno le cose, lui questa volta capisce e non se la prende: c’è un mondo intero che lo aspetta, lui e la sua chitarra. Forse tornerà a casa, da quella ragazza «dolce come lo zucchero». Allegro mi saluta: «Hasta siampre tocayo».