«Ti piace il vino?». «Solo se è buono… e tanto». La mia vecchia battuta non viene apprezzata. In realtà ho dato risposta a una domanda che certo non vuole essere altruistica, soprattutto se si pensa quale persona l’ha formulata: il caporedattore centrale. «Bene, allora per domenica sei “comandato” per andare in un’azienda vinicola di un amico del direttore. Ci sarà Michail Gorbaciov. Vedi di tirarne fuori qualche cosa che possa essere definito un articolo». «Perché proprio io il prescelto?». Il “gorilla” ridacchia. La vera risposta la sappiamo entrambi: nessuno tra gli inviati ufficiali ha voglia di sacrificare una domenica per un servizio che molto probabilmente offrirà poca sostanza per essere messo insieme, e comunque dirà poco. Ha il sapore fastidioso della marchetta. «Porta con te il fotografo e cerca di sederti al tavolo di Gorbaciov durante la cena ufficiale. E con ciò ho concluso».
Così la domenica dopo, sotto un sole di luglio che scioglie l’asfalto e un cielo bianchiccio che immalinconisce l’anima, ci ritroviamo, io e l’amico Silvano, a vagare in macchina lungo le strade tutte uguali della Brianza alla ricerca di un posto con un nome che sembra uscito da un giornalino a fumetti: Cernusco Lombardone (poco lontano da Paperopoli, mi viene da pensare). L’azienda dell’amico del direttore si trova nella periferia di Cernusco Lombardone… e mi domando come Cernusco Lombardone (270 metri sul livello del mare, quattromila abitanti) possa avere anche una periferia. Malignità che tengo per me.
La ricerca non è facile e i cartelli stradali si smentiscono l’uno con l’altro. I paesotti sono deserti, ci sono solo alcuni cani intenti a fiutare gli angoli delle case mentre le località si confondono l’una con l’altra… sembra di girare in tondo. Intanto il caldo sta diventando insopportabile e l’automobile di Silvano dispone di un condizionatore che non è proprio quello che ci vuole per questa stagione e questo sole a picco.
Finalmente ecco l’indicazione risolutiva: questo dove stiamo entrando è proprio Cernusco Lombardone, e se facciamo altri cento metri questa è la sua periferia. In effetti a farci capire che siamo arrivati a destinazione ce lo dice anche una straducola intasata di automobili tirate a lustro dalle quali scendono brianzoli in abito della festa, con accompagnamento delle rispettive consorti appena uscite dal locale coiffeur e ben addobbate con i gioielli di famiglia. Data la temperatura hanno preferito lasciare nell’armadio la pelliccia, ma non i tacchi a spillo, che ora si impantanano nell’asfalto in via di scioglimento.
Troviamo un buco dove posteggiare, scarichiamo l’attrezzatura fotografica (non si sa mai, può scapparci una foto di gruppo con Gorby, Signora, e magari anche l’amico del direttore), e dopo aver superato un’attenta perquisizione da parte di due ragazzoni in divisa tutti presi dalla loro parte, ci addentriamo nel piazzale antistante i capannoni dell’azienda. Intanto l’assembramento di folla comincia a farsi preoccupante. Per di più il sole è diventato veramente insopportabile, anche perché i suoi raggi vengono riflessi da tutto quel cemento che ci sta intorno, non solo sotto i piedi ma anche di lato, dai muri delle anonime costruzioni che incombono da ogni parte. Ci sentiamo il bersaglio di uno specchio ustorio.
È solo l’inizio, perché il sospirato ospite si fa attendere oltre un’ora, mentre passa e ripassa un elicottero a volo radente. Si odono i fischietti degli inossidabili vigili locali, si lanciano allarmi – «sta arrivando!» – inesorabilmente rientrati, alcuni giovanotti con walkie-talkie scambiano incomprensibili ordini in un codice solo a loro noto. Intanto sopraggiungono gli ultimi immancabili ritardatari, ancora intenti ad annodarsi la cravatta dopo avere cercato a lungo un sia pure precario spazio libero dove posteggiare l’auto, senza creare danni alla propria e all’altrui carrozzeria.
Il piazzale si riempie al punto che chi dovesse svanire per il caldo soffocante resterà in piedi, sostenuto da chi gli sta intorno a strettissimo contatto di gomito. Comincia a diffondersi una certa preoccupazione, sussurrata ma ormai evidente: «Era proprio per oggi? … abbiamo capito bene?… questo caldo ci sta uccidendo…». Poi ecco finalmente la “sirena” della liberazione, ecco il “transatlantico” nero con i vetri fumé, preceduto da due o tre automobili e seguito da altrettante, con vigili in motocicletta a fare la scorta. La limousine irrompe nel piazzale, in uno spazio precedentemente lasciato forzosamente sgombro. Il “transatlantico” si arresta ai piedi della scalinata che porta all’edificio principale, là dove vino arrivato da tutta Italia viene imbottigliato, etichettato, imballato e magari rimandato là da dove è venuto.
Dal “transatlantico” scendono Gorbaciov e Signora Raissa, ma quasi nessuno li vede al di là di quel mare di teste che li marca da presso e a causa della loro statura, non propriamente gigantesca. I due sospirati ospiti salgono sorridenti i pochi gradini che li separano dall’ingresso che conduce nel tempio del vino, e sorridenti osservano quei volti raggianti che li scrutano estasiati, squadrandoli da capo a piedi. Poi si pongono davanti a un microfono che qualche ignota mano ha posto alla loro portata. Ci sono anche un interprete (un omaccione dall’aria da ex-kgb), l’amico del direttore e altri signori, tra i quali uno con la fascia tricolore sulla pancia. «È il nostro sindaco», mi sussurra una signora sudaticcia, alla quale il trucco comincia sfacciatamente a cedere. Si capisce anche dal modo in cui pronuncia quelle poche parole che anche lei, in quanto cernusco-lombardonese, si sente proprio lassù, al fianco di tanto ospite, tra il sindaco e la “zarina” Raissa.
Si fa silenzio e lo “zar” attacca: «Grazie per il sole, grazie per i vostri volti, grazie per i sorrisi e gli applausi». Forse non lo hanno informato che quei volti che se lo mangiano con gli occhi, di quel sole ne avrebbero fatto volentieri a meno. Ma la frase fa effetto, e così insiste: «Voi avete buoni rapporti con lassù», e alza un braccio con il dito indice ben teso a indicare l’impietoso disco incandescente, che per più di un’ora ha arrostito il suo estasiato uditorio. «Nei vostri volti leggo l’amicizia, quell’amicizia che mi ha aiutato a superare i momenti più drammatici della mia vita», si riferisce al fallito golpe di due anni prima, il 1991. Ma non ne parla, parla invece del viaggio attraverso l’Italia che compì nel 1971 insieme con Raissa, «come due turisti qualunque, in questo Paese che noi chiamavamo capitalista, alla scoperta di mille cose meravigliose». Le ultime parole, pronunciate dalla voce impersonale e senza pathos dell’interprete, vengono sommerse da un’ovazione. Gorby ha conquistato la platea dei suoi pazienti e sudati anfitrioni.
Il colpo di teatro arriva dopo le immancabili parole di «fratellanza fra i nostri due popoli» e l’indicazione degli obiettivi comuni che sono propri delle due nazioni. A quel punto, tra la sorpresa generale, Raissa prende la parola, ed è la prima volta che lo fa in pubblico dopo la segregazione nella dacia di Foros, in Ukraina. Mentre comincia a parlare qualcuno lancia un mazzo di fiori, che viene preso al volo da un occhiuto agente in borghese del servizio d’ordine che da sempre accompagna i due preziosi coniugi, pensando a chi sa quale imprevedibile minaccia. «Ogni volta che torno nel vostro Paese per me è una indescrivibile gioia», esordisce Raissa, «perché so che voi ci ricoprite d’affetto, so che voi siete dalla parte di Gorbaciov», lei in pubblico lo chiama sempre così, per cognome, «dalla parte della sua lotta per la pace… grazie grazie!». È un trionfo: applausi, abbracci, grida, fiori, strette di mano, commenti tutti a suo favore, anche da parte delle sciure presenti, che forse un poco a denti stretti la giudicano «bella ed elegante, anche se forse non proprio vestita all’ultima moda», ammettendo che è «dolce, gentile e non dimostra i quasi sessant’anni che ha e che porta con disinvoltura. È certo una donna intelligente».
In quel pandemonio io e il fotografo ci siamo persi di vista, ma prima gli avevo chiesto di scattare alcune foto dei bambini di Cernobyl che sono ospitati da diverse famiglie del posto, «devono essere assolutamente qui intorno, insieme con una scatola di cioccolatini da consegnare a Raissa o a Gorbaciov, accompagnata da parole di benvenuto e di ringraziamento». Io mi lascio trascinare dalla folla all’interno del grande fabbricato, dove tavole imbandite attendono quella massa umana ben disposta nei confronti delle cibarie. Dovrebbe esserci anche un servizio d’ordine per distribuire i posti secondo il grado di importanza, ma a questo punto non è più possibile governare quell’ondeggiante marea vestita della festa, e tutti si siedono là dove capita. Magari cercando una posizione favorevole per continuare a scrutare gli illustri ospiti per poi, alla sera, raccontare ai meno fortunati quanto hanno visto e sentito.
L’interno è una sorta di grande palestra, illuminata da immensi finestroni e dove sono disposte, in un ordine che probabilmente vorrebbe essere gerarchico, numerose tavolate. C’è anche uno squadrone di camerieri in giacca bianca ritto sull’attenti, ma le loro fila vengono immediatamente sparpagliate dalla massa vociante che si precipita alla conquista di una sedia davanti a un piatto. Io, non so come, riesco a piazzarmi al tavolo dell’onorato ospite. Alla mia sinistra c’è un signore grasso, poi Raissa, poi Gorby, poi il padrone dell’azienda, quindi il sindaco con la sua fascia tricolore sulla pancia. Alla mia destra trovo uno degli interpreti, corpulento e accigliato, che mi squadra con sospetto e chiede chi io sia. «Un viticoltore», rispondo, confidando nella sua probabilmente scarsa conoscenza della lingua italiana. Fa una faccia interrogativa e forse vorrebbe chiedermi ulteriori spiegazioni, ma ci rinuncia; afferra la forchetta e comincia a mangiare l’antipasto già in generosa distribuzione.
A quel punto, grazie anche alla sorridente cortesia di Raissa, che un poco d’inglese lo sa, riesco a recuperare qualche frammento del Gorby-pensiero: «con il Papa si parlerà della pace… non sa ancora se si presenterà alle prossime elezioni… il presidente Clinton ha iniziato maluccio ma si riprenderà… l’accordo tra Israele e l’Olp è uno dei fatti storici più importanti di questo secolo…».
Finalmente laggiù, in fondo al salone, vedo il fotografo, in piedi contro la parete. Mi fa segno che la scatola di dolci è già stata consegnata e che lui ha immortalato il momento. C’è anche il bacio di Raissa a uno dei bambini: una vera manna per il nostro settimanale. Arriva la prima portata, ma Gorbaciov e Signora sono già sul piede di partenza. «È tardi», fa sapere l’interprete ufficiale, «Gorbaciov ha un aereo che l’aspetta per portarlo a Roma. Ringrazia tutti e promette che tornerà presto». Gli applausi sono meno fragorosi e molti tra i presenti non si muovono per paura di non ritrovare il posto conquistato a colpi di gomito. I due ospiti escono dalla sala, inghiottiti dalla parte di pubblico rimasta in piedi. La visita è finita. È durata 40 minuti.
Io e Silvano ci ritroviamo sul piazzale diventato deserto, mentre dal capannone fuoriescono attutiti i rumori del pasto. «Tutto qui?», chiede il mio compagno. «Tutto qui», confermo. «Allora aveva ragione chi non ha voluto venire…», replica lui, deluso. «Be’», concludo, «con un po’ di atmosfera e le tue foto il servizio c’è».
Tre giorni dopo ecco l’articolo. Titolo (non mio): “Con Raissa al fianco Gorby torna vero leader” (la creatività dei direttori è sconfinata). Ci sono alcune belle foto, e nel testo oltre a descrivere la cronaca della giornata ho accennato al probabile ruolo di “ambasciatore occulto” affidata al vecchio Gorby, venuto in Italia per suscitare simpatie e collaborazioni nei riguardi del suo Paese. Ho appena finito di leggere, che il telefono della mia scrivania squilla. È una chiamata dall’esterno. «È lei che ha scritto l’articolo su Gorbaciov?», mi apostrofa perentoria una voce di donna con marcato accento straniero… forse troppo marcato e forse troppo straniero. «Sì sono io, mi dica». «Lei non sa chi è Gorbaciov, è un tiranno, tutti in Russia lo odiano, vorrebbero vederlo morto… lei come si è permesso di parlare di Gorbaciov… lei non ha il diritto di parlarne… non dovrà mai più parlare di Gorbaciov … lei è stato pagato, lei deve smentire tutto quello che ha scritto… se non lo farà noi russi sapremo come punirla». E prima di attaccare, l’ultima minaccia: «Si pentirà di quello che ha fatto». Riappendo la cornetta pensando che non avevano torto quelli che avevano deciso di restarsene a casa e non beccarsi tutto quel sole sulla testa.