Loro

6b Via Cappuccio

L’appuntamento era due o tre volte al mese, alle 9 di sera, a casa sua, in un austero palazzo della vecchia Milano. Dopo essermi annunciato al citofono, del quale non ricordavo mai il numero ma che riconoscevo dalla posizione, passavo nel cortile interno circondato da un porticato e salivo una larga scala subito a destra della portineria. Credo in tanti anni di non avere mai incontrato anima viva. Il più delle volte Lui era già sulla porta che mi aspettava, spesso in pantofole e con il toscano in bocca, il cui odore aveva da tempo impregnato il pianerottolo. Le rare volte che non era sulla porta c’era Sandra, con il suo sorriso e quel saluto che ti faceva capire che eri gradito. Per un certo periodo comparve anche un gatto bianco e nero, che «sa parlare», come sosteneva orgoglioso il padrone di casa.

Prima si faceva sempre una sosta in salotto, per raggiungere il quale si attraversava l’anticamera presa in ostaggio da alte librerie e sfiorando l’imponente aratro di legno che vi troneggiava al centro. In salotto andavamo a sederci sotto quell’insegna in legno che indicava una rivendita di “sali e tabacchi” e che era finita anche sulla copertina di un disco. Whiskey, aranciata (che io ricordi, mai Coca Cola), quattro chiacchiere di aggiornamento sul suo e sul mio lavoro, e poi via nello studio, tra registratori, piastre, nastri magnetici montati e da montare, filtri, microfoni, giradischi e dischi più o meno rari. Lui mi faceva ascoltare, sorridendo orgogliosamente, qualche chicca: dal canto a cappella di un gruppo di mondine vercellesi, al ballo dell’Appennino pavese scandito dall’anziano “pifferaio” di Cegni, al violino del contadino di Monghidoro. «Che ne dici?», mi chiedeva furbescamente sornione, e io sapevo che domanda era solo proforma, perché aveva già deciso. «È per un disco sugli strumenti popolari». Alla fine ci si trasferiva nel piccolo locale accanto, tra pareti di libri, che io sbirciavo con dolente avidità, e dove c’erano ad aspettarci due poltroncine e un tavolo basso. Una volta mi disse trionfante. «Vedi quella nuova poltrona di vimini? L’ho comprata per te. Quando siamo andati in negozio io e Sandra abbiamo detto “Questa è per Alberto quando viene”». Probabilmente le cose non erano andate esattamente in quel modo, ma mi faceva piacere sentirglielo dire.

Lo consideravo un poco alla stregua del mio maestro. Era prodigo di consigli e suggerimenti, che sapeva dare in forma indiretta, formulando una domanda. Questo fatto l’ho sempre apprezzato e mi ha sempre stupito. Lui che era il “professore” riconosciuto da tutti noi che ci appassionavamo a quella musica e a quel mondo, un mondo che Lui conosceva direttamente da tanti anni, Lui che era famoso e importante, che poteva alzare il telefono per parlare praticamente con chiunque, politico o uomo di spettacolo che fosse, Lui che dirigeva la Scuola del Piccolo Teatro di Milano, che aveva inventato la cattedra di musica popolare al mitico Dams di Bologna e che veniva invitato come relatore in convegni di mezzo mondo, Lui con me non imponeva mai il proprio punto di vista. Esponeva il suo pensiero e alla fine chiosava con «Ti pare che sia così? Cosa ne dici?»: ovviamente mi pareva che fosse così. Dove ero io a “insegnare” era nel campo della musica leggera, che in quel tempo faceva parte del mio lavoro giornalistico e che lo incuriosiva e lo stuzzicava, soprattutto in occasione del festival di Sanremo. Voleva sapere se le cose andassero proprio come si sussurrava e più di una volta lo stupii “prevedendo” chi avrebbe trionfato nella serata finale. Lui sorrideva sornione, perché al festival c’era stato molti anni prima, quando faceva il giornalista, e gli era sembrato soprattutto un gran «casino» pieno di incultura e dell’effimero più banale e cialtrone.

Nel salottino con la poltrona di vimini “per Alberto” nascevano i dischi della collana che curavamo insieme. Aveva sempre pronto il materiale registrato sul campo da lui stesso o da qualche “discepolo”, mentre io suggerivo qualche edizione italiana di dischi presi da cataloghi specializzati, soprattutto americani. Alcuni di questi dischi ci seguirono come bonari fantasmi dal primo all’ultimo incontro, ma non videro mai la luce. Tra questi uno di gospel. Dicevamo «dobbiamo fare un gospel… sul mercato italiano non c’è un buon gospel», ma il gospel non lo facemmo mai.

Ogni cinque o sei mesi, dopo avere criticato l’“incredibile” discografico per il quale facevamo la collana a noi totalmente affidata, e al quale discografico, a modo nostro, eravamo profondamente affezionati, “fondavamo” una casa di dischi tutta nostra, come dimostrazione di totale autonomia e di prevalenza della cultura. L’avventura imprenditoriale durava un’ora al massimo: stabilivamo dove e come reperire il materiale, chi coinvolgere, i costi e il numero di copie che era necessario vendere per per far quadrare i conti. Poi, immancabilmente, si palesava Sandra per il saluto della buonanotte (noi saremmo andati avanti fino almeno all’una), e con il suo femminile buonsenso ci dimostrava quanto fosse pazzamente inattuabile il nostro immaginifico progetto. Buonanotte. La nostra “immaginazione” arrivava a comprendere anche il tango argentino, il fado portoghese, il rebetiko greco e il flamenco spagnolo. Nel catalogo, quello concreto e reale, il blues era già ampiamente presente.

Su suo invito, partecipai con un lungo contributo ai volumi promossi dalla Regione, editi da Silvana Editoriale e dedicati al Mondo Popolare in Lombardia. Dovevo ricostruire la storia (nascita, fulgore, decadimento) del cosiddetto “disco da bancarella” e intervistarne due protagonisti. Fu divertente. Lui, responsabile della serie, quando lesse le mie cartelle dattiloscritte non mancò di complimentarsi, perché, diceva, scrivevo bene e sapevo come si fa un’intervista. Naturalmente anche quella volta mi gratificò credergli. Una sera mi telefonò: «Verresti alla scuola del Piccolo per tenere ai ragazzi un po’ di lezioni sul mondo del disco? Qui non ne sanno nulla ma anche i dischi fanno parte della cultura e dello spettacolo. Tu quel materiale e quel mondo lo conosci molto bene e sai comunicare con i giovani». Accettai con entusiasmo. «Benissimo… ti farò sapere». Non seppi più nulla. Mesi dopo fu Lui a tornare sull’argomento: «Sai, quella faccenda delle lezioni sui dischi… non se ne fa niente». L’avevo già capito da me.

Mi propose, e io accettai, di lavorare alla realizzazione tecnica di alcuni libretti editi sotto l’egida del Piccolo Teatro. L’argomento era la musica. Fu piacevole e divertente, sia perché mi ritrovai nella stessa stanza con colleghi molto simpatici, sia perché dovetti impratichirmi nel controllo della scrittura del rigo musicale. Un giorno Lui mi offrì di recarmi, per conto dell’importante settimanale dove lavorava, al Festival dei Cantastorie che si teneva a Bologna. «Poi scrivi un pezzo dicendo quello che vuoi». Conobbi personaggi straordinari e straordinaria umanità. L’ultima sera bevvi lambrusco in Piazza Grande insieme con Guccini. Scrissi il pezzo e lo ritrovai la settimana seguente sul settimanale, stampato tale e quale. Su quello stesso settimanale da un po’ di tempo scrivevo sintetiche segnalazioni discografiche. Cullai l’idea di venire assunto.

I nostri incontri nel salotto dei libri e della poltrona in vimini andarono avanti per anni, mentre Lui invecchiava e, non so se per autocompiacimento o per sbadataggine, ripeteva sovente: «Una volta le cose erano diverse, andavano meglio… possiamo ben dirlo, noi che abbiamo la stessa età». Sulle cose aveva ragione, sull’età molto meno.

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