Loro

5b Voi avete paura di noi?

La incontrai due volte nello stesso giorno. La prima alla mattina, nella sede dell’Associazione. Fu Lei a venire ad aprire la porta: piccola con i lunghi capelli biondorame raccolti sulla nuca, gli occhi azzurri, la carnagione scura, una bocca dalle labbra ben disegnate, denti forti e bianchissimi. Indossava un paio di jeans logori e una camicetta bianca che faceva intravvedere la forma del seno. Era graziosa. Io ero lì per intervistarla, perché Lei era malata di Aids. Quell’intervista mi imbarazzava, mentre Lei sembrava considerarla la cosa più inevitabile e normale che potesse capitarle. Mi introdusse in una spoglia stanzetta che dava sulla via laterale, dove il traffico era scarso, e si accomodò a gambe incrociate su una sedia in una posizione vagamente yoga, indicandomi nel contempo una poltroncina lì accanto. Aveva una bella voce leggermente roca e dall’accento vagamente napoletano.

Mi raccontò di fughe giovanili lontano da una famiglia ricca ma troppo impegnata in altre faccende per badare a Lei, e di amori adolescenziali senza futuro. Parlò anche della scuola, che non aveva quasi mai frequentato e dei mille modi nei quali aveva passato le giornate, tra progetti, sogni, lunghe assenze, amiche e amici della sua stessa età, piccole feste, molti pettegolezzi e qualche invidia. Mi parlò del suo incontro con la droga. Un incontro voluto dal suo “lui” e per questo accolto quasi con gioia, come una prova d’amore.

Mi parlò del giorno che si scoprì sieropositiva e della immediata fuga dal paese per venire qui al nord, per cercare di perdersi e farsi dimenticare. «I miei non l’hanno saputo da me, ma da un loro amico. Dalle mie parti quello che mi è successo è considerato una vergogna, un’onta incancellabile», disse serrando le mani a pugno fino a che le nocche divennero bianche. «Ho sbagliato, sbagliato tutto», aggiunse poi con un sospiro, «ma la punizione… la punizione…», non completò la frase, e io pensai “è troppo grande!”. «Vedi», proseguì, «la gente ritiene che chi ha fatto le cose che ho fatto io meriti una punizione e allora pensa che questa cosa che ho addosso sia giusta. Loro pensano così e io intanto devo morire… non domani, non dopodomani… ma presto, molto presto. Lo so. La malattia è già partita, però c’è una cosa che la gente non sa: dopo il primo momento di terrore, quando ti sembra di impazzire, subentra uno stato di grande calma, di grande serenità, di pace… Oggi io sono serena e voglio aiutare quelli che sono nelle mie condizioni ma che questa mia serenità non l’hanno raggiunta. Per favore, scrivi questo». Si esprimeva lentamente, con tranquillità ma non in maniera distaccata o impersonale: era pienamente cosciente della sua condizione e non cercava né comprensione né pietà. Non prospettava giustificazioni.

Poi mi parlò del suo ragazzo, che l’Aids aveva già portato via, e di come sperasse di tornare almeno una volta a casa prima che tutto fosse finito. «Con i miei ho fatto pace», sottolineò la frase congiungendo le mani nel gesto della preghiera e portandole davanti alla bocca, con il capo leggermente reclinato in avanti.

La ritrovai alla sera davanti alla sala dove si teneva la manifestazione per i malati come Lei. La gente era poca. «Guarda», mi sussurrò con rassegnata malinconia, «di noi si parla tanto sui giornali ma quando c’è da dimostrare qualche cosa di concreto tutti preferiscono rimanere alla larga. Hanno paura di noi». Tacque un momento, si guardò intorno, poi si volse verso di me: «Tu hai paura di noi?». Risposi «No». Lei, forse per ringraziarmi, unì indice e anulare della mano destra, vi appose un bacio è appoggiò i due polpastrelli sulla mia fronte. «Grazie», bisbigliò in un soffio. Qualche giorno dopo la vidi in televisione. Era in piedi sul palco di un teatro durante un’analoga manifestazione. Ancora una volta apostrofò la platea, chiedendo, come già aveva chiesto a me: «Voi avete paura di noi?». È l’ultima immagine che ho di Lei. Da allora sono passati molti anni.

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