Eva (Rusconi Editore, 1988), mai pubblicato per chiusura improvvisa del settimanale
Una ventina di anni fa (anno più, anno meno) un ragazzo dimostrava ai coetanei di essere ormai uomo esibendo tre inconfondibili attestati: la prima volta con una ragazza, la prima sbronza e la puntuale conoscenza delle poesie di Cesare Pavese. Soprattutto quest’ultima era ritenuta prova determinante, perché su Pavese non era possibile barare, non era possibile contar storie. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne»: era una formula magica, un abracadabra di iniziazione che sottolineava la svolta chiave nella vita dello studente con la giacca a vento (più tardi si sarebbe chiamata eskimo) e il foglio politico ripiegato in tasca. Pavese come “rito di iniziazione”.
A una quindicina di anni dalla morte, lo scrittore di Santo Stefano Belbo conosceva una popolarità tra i giovani che in vita, fra oscurantismo fascista e Seconda guerra mondiale, non aveva neppure potuto sognare. Il libretto einaudiano con tutte le sue poesia veniva ora custodito gelosamente oppure passato, con intento culturalmente cospiratorio, di mano in mano, come di lì a poco sarebbe successo (ma con ben altro spirito e altra evidenza) al rosso opuscolo di Mao o a L’uomo a una dimensione di Marcuse. Qualcuno cercava anche di appiccicare alle composizioni più brevi e musicali del poeta langarolo qualche accordo di chitarra (era il luminoso mattino dei cantautori).
Perché tanto successo? Per più ragioni. In Pavese agli occhi dei giovani coesistevano elementi antitetici e fascinosi: il romanticismo ad esempio, e come tale venne interpretato il suicidio, a 42 anni, in un albergo di Torino (era il 1950). Morte per un amore senza speranza si disse subito, e benché lo scrittore avesse lasciato detto agli amici di «non fare pettegolezzı», da quel gesto disperato non si poteva certo prescindere nella valutazione dell’uomo. All’amico e conterraneo Davide Lajolo aveva inviato un estremo messaggio: «Ora non scriverò più: con la stessa testardaggine, con la stessa storica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti. Ciau per sempre».
Poi, in una società che cominciava a cullarsi nel torpore intellettuale ispirato dal miracolo economico, il suo perenne essere disadattato, la sua incapacità di trovare una pace intellettuale oltre che sentimentale, il suo sentirsi separato dagli altri non poteva non affascinare. Come ha di recente confermato Lalla Romano, Cesare Pavese si sentiva “immaturo” rispetto alla maggior parte del mondo che lo circondava, «perché era un poeta, ma anche perché era un uomo delicato che aveva avuto un’infanzia difficile. Siccome era un bambino timidissimo e miope, questo bastava a renderlo diverso»: ecco quindi che la sua fatica di vivere (il “mestiere di vivere”, come intitolò il suo diario) acquista concretezza e non è moda intellettuale, come non furono vezzi d’artista gli amori sofferti (ad esempio quello «con la professoressa di matematica destinata a rovinargli la vita», ha ricordato Fernanda Pivano, sua allieva al liceo D’Azeglio di Torino e “colpevole” ella stessa di averne rifiutato le profferte amorose) e quella specie di scontroso isolamento reso prolifico da una furiosa capacità lavorativa.
Anche con il suo lavoro i giovani degli anni Sessanta sentirono di essere in debito. Quel lavoro di imperterrito traduttore di tanti autori americani, a cominciare da quel Melville dell’epopea di Moby Dick, che solo allo sforzo sovrumano di Pavese (la traduzione fu fatta prima della guerra, senza disporre degli strumenti adatti, come può esserlo un approfondito vocabolario) dovette la sua fortuna tra i nostri lettori. E ancora Faulkner, Dos Passos, Steinbeck, Anderson, che indicavano ai giovani italiani la via maestra della grande cultura americana. Lui stesso, che mai lasciò i confini italiani e che forse il viaggio più lungo che fece fu quello che lo condusse al confino a Brancaleone in Calabria, sempre visse nel miraggio americano, fratello maggiore di una schiera di impenitenti sognatori.
In lui i giovani potevano leggere l’amore per la propria terra, i primi interessi etnologici che di li a poco sarebbero diventati moda (nel ’48 aveva creato, insieme con Ernesto de Martino, la collana di Studi religiosi, psicologici ed etnologici), anche se, come ha sottolineato Massimo Mila: «Il Pavese dei miti, il Pavese dei valori contadini, non riesce mai a dimenticare il mondo della tecnica visto attraverso il modello americano»: anche in questo fu precursore.
La sua stessa immagine fisica fungeva da modello: il ciuffo scontroso di capelli che gli scendeva ostinatamente sulla fronte e che lui rigirava automaticamente con le dita, la figura magra, «i grossi occhiali che si aggiustava sul naso con un colpetto di tosse nei momenti di imbarazzo e le ombre, quelle ombre drammatiche che gli cadevano a tratti sul viso», come ricorda ancora la Pivano, osservatrice privilegiata che rammenta come di lui in classe si favoleggiasse. Il vero intellettuale, insomma, l’operatore culturale, l’animatore di tante collane libresche che hanno contribuito a fare la storia della nostra cultura. Poi l’impegno politico e civile, non aperto come in altri suoi coetanei, ma forse proprio per questo più macerato e insoddisfatto. Insoddisfazione che troverà doloroso acme nella consapevolezza di essere stato testimone della resistenza partigiana senza avervi preso materialmente parte. Certamente a tutto ciò fu dovuta la fortuna di Cesare Pavese una quindicina d’anni fa (o giù di lì). E oggi?
«È sentito come troppo serio, pesante, indigesto, triste»: è il parere del professore Ettore Zanola del liceo classico Omero, interpellato per una breve indagine tra le scuole di Milano. «Poi, oggi, è caduto quel modello di intellettuale seminatore di inquietudini che tanto affascinava una volta. Pavese è nei programmi di insegnamento ma i ragazzi preferiscono altri scrittori. Calvino per esempio. Forse l’intellettuale che dà sicurezza è più attraente». «Leggere Pavese», incalza un suo collega, Alessandro Vimercati, «vuole dire mettersi continuamente in discussione, con il rischio di non trovare una via d’uscita. Pavese non avanza proposte». Insomma, non indica una soluzione ai problemi della vita e quindi la generazione di oggi, decisamente meno romantica e più pragmatica, non ne subisce il fascino. «Pavese era un eterno adolescente», sottolinea Zanola, «per questo forse era facile immedesimarsi in lui, ma poi si scopre che proprio lui non aveva saputo andare oltre quella fase, e si era ucciso. I ragazzi non avvertono più il richiamo di quella situazione esistenziale ma solo gli aspetti negativi».
È raro che uno studente degli anni Ottanta legga Pavese di sua spontanea volontà, ma se ben guidato può anche considerarlo con interesse. «Oggi non è più di moda», ammette la professoressa Annamaria Salizzoni del liceo classico Berchet, «e infatti io lo uso come punto di aggancio per altri autori. Non sembri esagerato, ma il tema del ricordo ci può addirittura portare a Proust». Purtroppo però in Pavese i ricordi sono ulteriore causa di crisi. I luoghi della giovinezza, pur essendo rimasti uguali, non suscitano l’identificazione con il passato. Inoltre oggi i ragazzi vivono in un ambiente culturale proiettato verso il futuro e non sentono più il richiamo delle “radici” dei padri; soprattutto non pensano di avere tempo per divagare da quelle che sono le nozioni strettamente richieste dai professori. Molti professori, nel calderone di un programma ministeriale magmatico, raramente trovano il tempo per gettare uno sguardo a Pavese, «anche se dal punto di vista stilistico, dello scrivere, può darci ancora una lucida lezione», ricorda Alessandro Vimercati.
In conclusione, Pavese è sostanzialmente un inattuale? Non per tutti. «Cesare Pavese è importante per capire la contemporaneità», è opinione di Fernanda Morello del liceo Linguistico Internazionale. «Leggere una presenza come quella di Pavese può essere assolutamente necessario per capire la nostra epoca, esistenzialmente molto complessa. Inoltre è guardato con simpatia perché i giovani oggi privilegiano nell’ambito filosofico la psicologia e addirittura la psicanalisi; Pavese è certamente un soggetto adatto a questo genere di indagini».