Apparentemente è solo una trascurabile storia sottotraccia che segue il percorso di una persona o addirittura di una famiglia. Una costante alla quale, quando il trascurabile “fenomeno” è in essere, non si fa caso, ma che poi, nell’arco degli anni, rende palese la propria tenace e sommessa presenza. Nel caso della Sua famiglia questo ruolo lo aveva svolto il profumo del calicantus.
Infatti, una pianta di calicantus (Calicanthus Praecox) – più che una pianta, un arbusto dalle foglie verdi e che non raggiungeva i tre metri d’altezza – già c’era nel gremito giardino di Nonna. Era là, modesto, tra gli alberi in letargo autunnale esposti taciturni alle prime brine. Nonna lo seguiva e curava con materna attenzione, perché sapeva bene che nella stagione fredda, a novembre iniziato, quel generoso arbusto ormai privo di foglie avrebbe fatto spuntare i tanti, e tanto attesi, “fiori d’inverno”. Fiorellini piccoli, di un giallo vivo, a forma di calice, con il fondo più scuro, quasi rossastro. Soprattutto profumati. Profumatissimi, di un profumo avvolgente, inebriante, inconfondibile e pervasivo.
Nonna ne amputava piccoli rametti dalle forme geometricamente improbabili, e li distribuiva sapientemente nelle camere della casa. In tutte le camere: in sala da pranzo, in camera da letto, in cucina, in bagno e soprattutto nell’austero studio che era stato locale di meditazione e di lavoro di Nonno negli anni tra le due guerre. La mano dell’anziana signora era particolarmente generosa accanto al fuoco del camino, perché sapeva che il calore della fiamma avrebbe ulteriormente esaltato l’effluvio aereo che si sprigionava da quegli umili fiorellini color del risotto alla milanese. Il debordante trionfo delle centinaia di petali colorati, a lungo appartenuti all’erompere della primavera fino agli ultimi dorati giorni del tardo settembre, trovava in questo modo la propria quieta, ultima epifania. Dopo averli collocati secondo una prassi studiata e rodata negli anni, Nonna si concedeva un giro di soddisfatto controllo attraverso tutta la casa, soffermandosi accanto a ogni rametto e inspirando l’aria, con gli occhi che luccicavano d’orgoglio per un lavoro ben fatto.
Anche Mamma aveva sempre amato quel profumo. Quando i fiori erano sbocciati, portava qualche rametto nell’appartamento di città, quasi una copia della liturgia che si era appena svolta in campagna. Anche lei era orgogliosa della propria opera, al punto che quando il figlio aveva inopportunamente sottolineato che «quelli non sono rami ma scheletri di piante», lo aveva tacitato con un perentorio, e quindi inusitato, «Tu non capisci niente!». Anche in città il profumo del calicantus invadeva ogni angolo abitabile, suscitando lo stupore gioioso (e una traccia di invidia) nelle amiche che venivano a trovare Mamma.
La storia si sarebbe rinnovata in una terza generazione. Questa volta la vestale sarebbe stata Moglie e il luogo dell’inizio della cerimonia il giardino della casa di Lei nell’Alta Brianza. Nella stagione della grande luce e del caldo sole nessuno notava l’anonimo cespuglione mimetizzato alla base dei pini, ma questo si sarebbe reso evidente con la sua fioritura sfacciatamente gialla e improvvisa che alle prime nebbie autunnali avrebbe macchiato il giardino. Era di nuovo il tempo della parca potatura, dell’esaltante e tranquillizzante profumo, delle castagne sul fuoco e della distribuzione dei rametti tra le stanze della casa. Seguiva il rientro in città e anche qui, come sempre, la suddivisione nei vari locali delle indelebili tracce di un mondo di campagna sempre più obsoleto. Fu così anche l’ultima volta, alla vigilia della vendita dell’intera proprietà: prima di uscire, quando già stava per chiudere il cancelletto del giardino, Lui guardò in alto e vide, improvviso, il colore. Ne sentì l’imperativo richiamo, si armò di forbici e con un poco di nostalgia portò a termine l’ultimo sacrificio.