Era un comunista della vecchia guardia, e aveva fatto la Resistenza tra le montagne del Cuneese e in Valdossola. Lo incontrai la prima volta nella sua qualità di sindaco di un minuscolo paesello della Valgrana, là dove si guarda l’uomo e non la tessera. Ero arrivato lassù per fare un servizio sulle ultime presenze della lingua d’Oc in territorio italiano. Che fossi sulla via giusta me lo avevano confermato i cartelli stradali, scritti in italiano e in una strana grafia a me totalmente ignota. Indicavano anche la presenza di un grande monastero. Lui era basso di statura, un poco pingue, pieno di entusiasmi e di voglia di parlare. Accolse me e il fotografo nella Casa comunale in una giornata di sole e di vento, attorniato dalla sua squadra di giovanotti entusiasti quanto lui. Mandò subito a recuperare la nostra automobile, che aveva bevuto l’estrema goccia di benzina prima di affrontare l’ultimo tornante, e mandò a chiamare l’unico benzinaio di quella conclusiva propaggine della vallata, percorsa da una strada che non conduceva da nessuna parte.
Era l’orgoglioso direttore di un quinterno ciclostilato – La Vous – il cui compito era dare e ricevere notizie di vecchi valligiani emigrati nelle Americhe o in Australia: «Chi nasce qui può andare ad abitare anche sulla Luna, ma della sua origine sarà sempre orgoglioso». Meno di novanta abitanti dispersi qua e là, case di pietra e calce, alcune cantine dove riposava a stagionare un formaggio in attesa di un imminente marchio Dop (goduriosa rarità gastronomica «che finisce anche nei grandi ristoranti di Parigi e New York»); e poi cascine isolate come zattere nel nulla, con muri di pietra spessi più di un metro, stalle che verranno abitate solo in inverno, quando il mondo verrà chiuso fuori, e tutto intorno vasti pascoli che si arrampicavano verso le nuvole. Sparpagliati sulla carta geografica paesucoli di due o tre decine d’abitanti a fare cerchio intorno alla sola cabina telefonica esistente nel raggio di molti chilometri. Punto di riferimento per gli indigeni e per i rari e più arrischiati turisti, il santuario – infinitamente grande per un posto infinitamente piccolo – dedicato al santo locale, lo stesso da cui avevano preso il nome il paesello e il formaggio.
Per due giorni ci fece da cicerone, verboso e orgoglioso. La prima sera, a tavola, il fotografo mi comunicò a mezza voce «Lo sai ? è convinto che io sia stato in Viet Nam. Come se lo sia messo in testa non ne ho la minima idea… sono stato partigiano, ma in Viet Nam mai messo piede!». «Diglielo, chiarisci l’equivoco», «Perché ? Lui così è contento!». Alla sera ci aveva portati a mangiare nell’unica osteria dell’alta valle, La Tana della Marmotta. Il menù era stato polenta, lepre in salmì e un vino rosso imparentato con la barbera. Per digerire, un miscuglio di grappa e panna liquida, una miscela che doveva veleggiare sui 60 gradi: nome locale Latte di Marmotta. L’intruglio favorì il mio sonno di pietra tra le coperte del gelido rifugio.
Nel pomeriggio del secondo giorno mi arrampicai da solo per andare ad assaggiare la neve, che da lassù mandava invitanti baluginii. Superai il limite delle mucche al pascolo. Vidi più di una marmotta di vedetta davanti all’entrata della propria tana, sotto un sole che calcinava la pelle e un vento che tagliava l’erba. Ritte sulle zampe posteriori, osservavano sospettose i miei movimenti e fiutavano l’aria. Nel cielo due rapaci compivano concentriche evoluzioni circolari sempre più strette, con ali immobili e occhio a terra. Mi avviai per scendere, quando lo incontrai che veniva a raggiungermi perché voleva mostrami il posto esatto dove aveva partecipato a uno scontro tra partigiani e tedeschi: su lati opposti della vallata, che qui si faceva stretta, e con il torrentello nel mezzo. Non gli chiesi se c’erano state vittime e lui non me lo disse.
Mi parlò del «Passo dei Morti», un precario e arrischiato sentiero che tra pietrame e strapiombi portava, lungo il crinale della montagna, al lontano camposanto, infrattato sotto le vette che dominano la brumosa pianura. Il percorso era segnato da lunghi massi a forma di parallelepipedo sui quali venivano poste le bare per far riprendere fiato ai trasportatori. Poi, sorridendo furbescamente, mi disse anche che tutte le volte che si teneva il censimento territoriale, sia il suo comune sia quello confinante dichiaravano la propria giurisdizione su uno stesso prato, in omaggio a un’antica diatriba che mai aveva trovato pace. «In questo modo», sottolineò ammiccando, «l’Italia risulta più grande di quanto in realtà sia».
A cena mangiammo di nuovo nella Tana, in una lunga e fragorosa tavolata della quale faceva parte anche un gruppo di giovani e irrequieti Alpini di leva, arrivati in quota per alcune non meglio specificate esercitazioni. Nel pomeriggio avevano rizzato una grande tenda e sparato qualche colpo presumibilmente in aria. Avevano anche una cucina da campo, ma il richiamo della Tana e del salmì era stato irresistibile, e poi lui aveva orgogliosamente fatto presente che c’erano anche «due giornalisti arrivati da Milano», richiamati lassù dall’irresistibile profumo di tanto raro formaggio.
Prima che partissi mi presentò i due ragazzi obiettori – erano ancora i tempi del servizio militare obbligatorio – senza i quali «qui non si potrebbe andare avanti». Quando salii in automobile mi fece dono di un piccolo libro. L’autobiografia di un montanaro senza più montagne: «Parecchi anni fa, quando ero più giovane, più bello e più stimato, ma anche più sprovveduto, ed ora son vecchio trascurato e maltrattato, vivevo da buon contadino nel mio paese […] Le borgate ora sono deserte o semidistrutte e le famiglie che ancora resistono già assottigliate, meditano anche esse d’emigrare».