La prima volta che Mamma, mio fratello ed io ci recammo a trascorrere le vacanze in una località che non fosse una canonica location (credo oggi si dica così) di famiglia, fu durante un’estate della metà degli anni ’50. Andammo al mare, a Lido di Camaiore, in provincia di Lucca, in una Versilia non ancora celebrata come richiamo per vip, o presunti tali, di passaggio o di semi-stanziale presenza. Era a quel tempo in pista di lancio il cosiddetto “miracolo economico italiano”, quello che a breve avrebbe trovato i suoi altari celebrativi anche nei locali notturno-canori della Bussola e della Capannina. Tra i gli “officianti” si snoderanno nomi nostrani e stranieri di planetario prestigio, o di almeno comprovato richiamo nazionale.
Partimmo in una calda, afosa e appiccicosa mattinata di metà luglio, portando con noi la prospettiva di quattordici giorni da trascorrere in una pensione dal casalingo nome di “Villa Gigliola”, che apriva la sua austera facciata in stile Liberty all’inizio di Viale del Secco. Lo aveva comprovato la cartolina di amichevole accoglienza inviata dalla padrona a Mamma. Partimmo dalla Stazione Centrale di Milano, con forse troppo bagaglio, molta curiosità da parte di noi ragazzini e palese ansia sul volto di Mamma. Prendemmo posto in un vagone di terza classe dai sedili che erano semplici panche di legno, perché ancora non era stata messa in pratica l’epocale rivoluzione che avrebbe ridotto a due le classi su semoventi rotabili. Non so in Europa, ma al momento in Italia il fatto non avrebbe cambiato di molto la realtà: le carrozze di terza diventeranno di seconda, quelle di seconda raggiungeranno la prima, dove le aspetteranno le superstiti per grado e per censo e che effettivamente avevano sempre orgogliosamente appartenuto al livello di eccellenza.
Il viaggio non fu comodo. Persone vocianti, bambini irrequieti petulanti o lacrimanti, donne e uomini sudaticci, cielo bianchiccio e stopposo, mamme rimproveranti o troppo permissive, qualche schiaffo al volo, ogni tanto una reprimenda o due, focacce e panini debordanti spuntati da borsoni senza forma, acqua non proprio fresca e vino troppo caldo, ininterrotto cicaleccio, raccomandazioni inascoltate e ricordi «di quella volta che…». Intanto il caldo umido si impossessava del vagone e a ben poco serviva abbassare i renitenti finestrini.
Infine… il mare! Eccolo all’improvviso, quasi si fosse alzato un sipario. L’aria si fa più leggera, i colori più vividi, gli umori più sereni, le voci più dolci e sommesse. Forse è solo in questo momento che inizia la vacanza. Le persone si accalcano gioiose ai finestrini rivolti al lato del mare e attraverso i quali è possibile riempirsi gli occhi di tutto quel blu. Per alcuni è la prima volta, per altri è un gioioso ritorno, per altri è stupore e per altri ancora una sorta di liberazione. I bimbi più piccoli guardano con occhi sgranati, stupefatti, mentre i più grandicelli lanciano grida di gioia e meraviglia indicandosi l’uno con l’altro questa o quella barca, questa o quella vela colorata.
Scendiamo alla stazione e mi accorgo che i vagoni formano un corteo agganciato a una locomotiva a vapore, probabilmente una delle ultime ancora in servizio regolare lungo le patrie rotaie. Certo è la prima e l’ultima “caffettiera” nella mia vita da discreto viaggiatore. Sbuffa ancora e avvolge di candido vapore le gambe dei passeggeri, che cinguettanti e chiamandosi l’un l’altro tra mille raccomandazioni e richiami scendono dai vagoni e si avviano lungo la banchina. Le madri radunano con la voce e con gesti imperiosi la figliolanza intenta ad ammirare con occhi sgranati la grande macchina di ferro. Tra bagagli, borse, borsoni e valigie si avviano sparpagliati verso l’uscita.
Anche noi usciamo. Sul piazzale inondato dal sole non ci sono taxi in sonnolenta attesa: al loro posto alcune carrozzelle con brumista e cavallo sonnecchiante o con il muso infilato nel sacco di iuta contenente la giusta razione di fieno e granaglie. Ci issiamo a bordo (anche quello della carrozzella resterà un unicum nella mia vita). Il tragitto non dura molto, scandito dal ritmico rumore degli zoccoli e dal quieto ondeggiare della lunga e inoperosa frusta del vetturino. L’uomo rivolge qualche parola di benvenuto a Mamma e guarda noi sorridendo. «Qui si sta bene», comunica con compiaciuto orgoglio campanilistico. Ma forse già presagisce che i prossimi saranno gli anni della corsa al mare, delle vacanze con la Fiat 600 alla portata di tutti o quasi, dei forzati del week-end e delle giornate da bollino rosso, del bagno a mezzanotte e della pizza con coca-cola, dell’obbligo di abbronzarsi. Incombono le vacanze intelligenti. La tranquillità anche qui avrà fine.
I giorni programmati sono segnati da tredici con sole a picco e uno di pioggia sospinta dal vento. Mamma è stata come sempre previdente e non mancano gli impermeabili leggeri. Sotto le gocce che cadono oblique, nell’unico pomeriggio di nuvole rotolanti andiamo al cinema, una costruzione in cemento che appoggia i piedi tra la strada asfaltata e la spiaggia già bagnata e deserta. Un cane insegue gioioso la palla che l’altrettanto solitario padrone gli lancia in un gioco ripetitivo. Il film in programma è Attanasio cavallo vanesio, con Renato Rascel. Nelle altre giornate di sole cristallino, lungo il viale alberato che porta allo stabilimento balneare ci si ferma al banchetto della frutta per fare la scorta da consumare nel corso delle ore che verranno. Una fruttivendola di irrefrenabile loquacità esalta senza pudore le qualità della merce aggiungendo sempre qualche cosa a ciò che Mamma ha chiesto. Mele, uva, le ultime ciliegie, susine, albicocche, ma soprattutto fichi, corposi e dolci.