Noi

35a Milano-Madrid e ritorno

Questa non è la cronaca di un viaggio. Nemmeno il diario di un viaggiatore. Sono lampi di ricordo di alcuni giorni passati con mio Padre sulla strada che da Milano porta a Madrid, dove restammo due giorni. Mio Padre doveva partecipare al convegno dove avrebbe letto e discusso una sua relazione; io sarei andato in giro a scoprire memorabilia della città. Durante l’interminabile tragitto sono stato sempre alla guida della seminuova Fiat 1300.

Tarascona, a una manciata di chilometri dal mare a fianco del fiume Rodano. È già quasi Costa Azzurra: un’etichetta voluta dalla politica locale, dal turismo, dalla tradizione o, forse, da un’evidenza cromatica impreziosita da un insinuante richiamo per i sognatori. A Tarascona, senza concederci una sosta, nasce spontaneo un pensiero irriverente nei confronti di una comune lettura giovanile: Tartarino di Tarascona, romanzo di Alphonse Daudet, anno 1872. Tartarino era più o meno l’altra faccia di Sandokan. Piccolo borghese provinciale dalle sempre sbandierate ambizioni di grande esploratore, ingenuo e mitomane, propenso alla bugia e alla pinguedine, elaboratore e progettatore di avventure in paesi lontani e selvaggi, orgoglioso custode di un baobab nano sopravvissuto in giardino, sognatore di un’Africa ormai inesistente e della caccia ai leoni, millantatore senza pudori e molta fantasia unita a ingenuità. Andrà in Algeria, da dove tornerà con un leone cieco sottratto a un mendicante ciarlatano.

A Perpignano, già capitale dell’Occitania, in prossimità del confine con la Spagna e lambito dai Pirenei, ci si ferma per dormire. Pima una cena a base di pollo al sale (una versione succulenta del pollo alla creta, nella quale il “sarcofago” contenente il pennuto debitamente preparato e benedetto da appositi profumi, è fatto, appunto, con sale grosso), poi una bella dormita notturna, favorita e propiziata da qualche bicchiere di un rosato dal modesto apporto di bollicine.

La strada verso la Capitale è lunga ma agevole, a tratti segnata da infiniti rettilinei che corrono verso un lontano cielo dove il sole sta calando con astronomica regolarità. Il paesaggio ricorda molto i già incombenti film che si sono guadagnati il titolo di “spaghetti western”. Film che sembrano riprodursi per partenogenesi, figli minori del trio Leone-Morricone-Eastwood, in una ridondanza di tipi, situazioni, dialoghi, tromba-e-chitarra, vento che fischia, bellone di contorno, rivoltelle che ruotano su un solo dito, parole minacciose preannuncianti vendetta, il tutto in una maldestra messe di citazioni che a tratti si addentra nel territorio scivoloso del ridicolo. Qui, in terra di Spagna, mancano certo il cavallo lanciato ventre a terra, il colpo di carabina dalle rocce incombenti, la musica senza fiato al ritmo degli zoccoli, le inquadrature dall’alto, la voce arrochita che annuncia come molte cose stiano per accadere e che non tutte saranno piacevoli. Manca anche lo sguardo penetrante – possibilmente ceruleo – del protagonista predestinato alla vittoria…

Siamo sulla interminabile carretera che ci porterà a Madrid. Poche automobili ma un rosario continuo di camion. Uno dopo l’altro: alti, grandi, lunghi, larghi, ingombranti, incombenti e veloci. I guidatori sono invisibili, lassù nella loro cabina a dominare la strada, però sono anche gentili e avveduti. Quando siamo nel fumo del loro scappamento, con un lampeggiatore verde posto vicino alla targa ci avvisano che possiamo tranquillamente sorpassarli perché quella strada che sembra non avere termine è libera, perché da lassù vedono distintamente fino all’orizzonte… e anche oltre la pur invisibile curva. Io accelero e passo, dando due leggeri colpi di clacson quale segno di giusto ringraziamento. Una mano fuoriesce dal finestrino e fa un cenno di saluto.

L’albergo madrileno si sviluppa dal secondo al quinto piano di un fabbricato di otto. È molto pulito, moderno ed elegante. Per la nostra prima cena il menù propone carne distesa su un letto di pepe verde. Siamo di fianco alla Gran Via.

La Gran Via, cioè il trionfo delle luci e dei colori, tra grandi alberghi, ristoranti, bar, negozi di ogni genere, lusso e abbondanza. La sublimazione della movida (in Italia ancora non esiste nemmeno il vocabolo). È gioventù, voglia di vedere e di farsi vedere, ostentazione, allegria e pettegolezzo, abiti nuovi e acconciature da mettere alla prova, “balocchi e profumi” per ogni età, voglia di esserci per parlarne anche domani, voglie di camminare senza meta, guardare le vetrine, immaginare un acquisto, spendere più soldi di quelli che ci si può permettere, invidiare i facoltosi che sono tanti e che qui certo non mancano. Entro in un negozio di souvenir e acquisto una guida turistica di Madrid. La gentile commessa mi chiede se la Gran Via mi gusta: «Perché sa, a Lui non piace… è troppo poco macha». Lui naturalmente è l’ancora imperante Caudillo.

La Plaza de Toros è un importante monumento architettonico cittadino. Attira turisti di ogni razza, e madrileni di qualsivoglia estrazione sociale. Ci vado, ma sono dubbioso. Infatti dopo le prime banderillas conficcate nella groppa dell’incolpevole bovino lascio quella che mi pare una crudele bolgia. Quando sono fuori mi raggiungono ancora i “muggiti” del pubblico che manifesta il proprio entusiasmo dopo ogni ferita. Non è proprio roba per me.

È invece per me la serata flamenca in un locale della Gran Via. Ci vado con un giovane collega di mio Padre, a Madrid per «imparare il mestiere». Su una larga pedana si esibiscono due ballerini – donna e uomo – dalle movenze feline e voluttuose. Sciabolate di luce ne accentuano la plasticità, esaltando il colore dei loro abbaglianti costumi e il ruotare della corolla della gonna di lei. Un suonatore di chitarra dalle cento mani e uno strumento dalle mille corde, se ne sta rintanato nella penombra. Allo strumento aggiunge la propria voce, intercalando incitamenti e commenti che sembrano schioppettate. I due ballerini si esaltano, entrano nella parte, il ritmo frenetico dei tacchi gareggia con quello della chitarra, le movenze, lente oppure a scatti improvvisi, imitano una schermaglia amorosa. Almeno, così sembra. Sguardi altezzosi e penetranti, schiene erette e arcuate all’indietro, mani che sembrano palpare l’aria e lavorarla come creta… Il pubblico di stranieri affamati di nuove sensazioni e appassionati locali con l’aria da veri intenditori, ammutolisce. Quando usciamo ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzini e ragazzine che ripete la stessa pantomima sotto un porticato. Il flamenco prepara la sua prossima generazione.

Secondo – e ultimo – giorno. È dedicato totalmente al Prado, il grande museo di Madrid. Cerco soprattutto le opere degli italiani di fama planetaria: Botticelli, Caravaggio, Raffaello, Tiziano. Poi Goya, Velàzquez, Bosch, Rubens, Van Dyck… Lascia un segno l’incontro con El Greco, cinquecentesca avanguardia del Siglo de Oro. Mi colpiscono quei corpi allungati, viso compreso, quella strana luminosità vagamente lunare, quegli sguardi umanamente pensosi. Ma a colpirmi è soprattutto la pullulante presenza di aspiranti pittori: dai professionisti del pennello agli amatori con buona tecnica e indomito impegno. Si trovano in ogni sala, con tutto il loro armamentario: cavalletto, tela, tavolozza, pennelli di varia foggia, tubetti di colore, spatole, strofinaccio e indeflettibile passione. I custodi della pinacoteca osservano bonari, commentando tra loro paterni e comprensivi.

A sera, dopo un’altra bistecca al pepe verde, mio Padre mi ammonisce: «A letto presto. Domani ti aspettano molti chilometri».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *