Roberto amava il disco. Un aspetto della sua personalità che forse è rimasto un poco in ombra nella pur giusta marea di scritti celebrativi. Roberto Leydi, lo posso testimoniare personalmente, amava il disco sia come oggetto in sé, sia come supporto tecnico per un contenuto culturale, sia come esso stesso elemento proprio della cultura del ventesimo secolo. E non ne faceva un problema di tecnologia, se gli piaceva ripetere con un sorriso la frase di un discografico americano (Moses Asch ? purtroppo oggi la memoria non mi sostiene): «C’è chi ama il fruscio di un 78 giro come altri amano il ronfare del motore di una Ford modello T». Il che non vuole certo dire che Roberto fosse contro i progressi della captazione/conservazione/riproduzione del suono, che allora si esprimeva al massimo livello commerciale con il 33 giri e la cosiddetta alta fedeltà, ma che riteneva che anche i limiti propri del vecchio 78 giri (suono infedele, ridotto spettro di frequenze, alto rumore meccanico di fondo) in realtà fossero elementi propri della “cultura” di quel periodo del disco, e come tale andassero considerati e in sostanza, sia pure entro limiti di comprensibilità, rispettati. Infatti, quando consegnava al discografico materiale a 78 giri perché venisse riversato in un 33, non mancava di accompagnare il gesto con una benevola raccomandazione: «Non esageriamo con filtri e superfiltri !». Oggi mi viene da pensare che questo atteggiamento rientrasse in un certo modo nella stessa ottica che a livello di riproposta da folk revival chiamavamo “ricalco”: in estrema sintesi, il rispetto più fedele possibile della forma originale.
Roberto amava il disco anche come oggetto. Bastava vedere come li trattava, i dischi. Ma qui è necessaria una parentesi, per ricordare che la mia conoscenza con Roberto Leydi, che mi pare risalga al 1965 e avvenne per il tramite di Bruno Pianta, divenne frequentazione regolare quando io entrai a fare parte, a mezza giornata, dell’Editoriale Sciascia (che tutti erroneamente chiamavano ancora Vedette, e che avrebbero continuato a chiamare così) con il compito non esclusivo ma principale di occuparmi della neonata etichetta Albatros. Era il 1970 e vi rimasi circa dodici anni. Albatros era una creazione di Roberto, che, lasciati I Dischi del Sole, aveva proposto al maestro Armando Sciascia (un discografico molto naïf, molto umorale ma certamente anche molto intelligente) di creare un catalogo di musica popolare/etnica: Albatros appunto. Il nome venne scelto dallo stesso Leydi, perché uguale in italiano e in inglese e come omaggio a una sua passione, The Rime of the Ancient Mariner, del poeta romantico inglese Samuel Taylor Coleridge. «Infatti», faceva notare arguto Roberto, «se osservi bene il simbolo, vedrai che l’albatros è attraversato da una freccia». Gli piacevano i particolari, i riferimenti culturali, la “ragione” palese o nascosta di ogni cosa. Con molta onestà, Roberto aveva detto a Sciascia: «Con questa collana non credere di fare i soldi: ne venderai centinaia di copie, non migliaia. Ma ne venderai sempre. E non faremo assolutamente un duplicato de I Dischi del Sole, ma ci muoveremo in un materiale diverso». Perché, altro pregio di Roberto, sapeva come andava il mondo e che era inutile illudersi e illudere. Sciascia accettò, e il fatto va a suo onore. E a suo onore va anche detto che mai interferì nelle scelte di Roberto, che in tutto e per tutto era il responsabile scientifico della collana, e che qualche volta dirottò alcuni dischi, proposti da Sciascia, sulla collana meno rigorosa, Zodiaco.
L’etichetta – che alla fine raggiunse i duecento numeri – si divideva in alcune sezioni: documenti originali del folklore musicale europeo, del folklore del mondo, Usa Folk & Blues, folk revival. Si attingeva anche da cataloghi esteri (uno su tutti, Folkways), ma il grande piacere intellettuale e manuale di Roberto era lavorare sul materiale italiano, o comunque su quello raccolto da lui stesso o dai suoi “allievi”. Ed è qui che si manifestava il suo amore per il disco anche come oggetto, come lavoro manuale, come piacere di “fare”, di mettere insieme, di progettare e di eseguire. Lavorava alla macchina da scrivere per stabilire il contenuto del disco (la sequenza più frequente, quando possibile, era grosso modo una sorta di “dalla culla alla bara”) e per controllare il minutaggio delle due facciate, in modo che fossero più o meno uguali; poi al magnetofono, per assemblare i pezzi, quindi individuava l’immagine per la copertina, poi si dedicava all’imprescindibile libretto, con cartina geografica e, se il caso, qualche schizzo di strumenti o altro. Gli piaceva lavorare con i caratteri trasferibili (il cosiddetto letraset: allora non c’era il computer), e magari inventare qualche scorcio di foto che di un elemento assolutamente comune e banale facesse una sorta di quadro astratto, di invenzione grafica; frugava negli archivi di vecchie foto o di vecchie stampe ed era particolarmente felice quando trovava qualche diretta correlazione tra un canto e l’immagine che aveva scovato; amava ricreare un’atmosfera attraverso una fotografia, vecchia o recente, ma comunque sempre carica di significato culturale/sociale (per queste ultime particolarità, l’esempio più significativo è la serie di dischi dedicati alla Regione Lombardia, della quale cito la fotografia di Ferdinando Scianna con i cantori al tavolo dell’osteria e in alto, sulla parete, una vecchia fotografia di chi li aveva preceduti: «Sono le stesse facce», sottolineava Roberto). Lavorava sempre e comunque con immutato entusiasmo. Quell’entusiasmo che lo accompagnava in qualunque cosa facesse, e che si accoppiava sorprendentemente con l’ironia e il disincanto propri della sua anima piemontese.
Preparava più dischi di quanti se ne potessero realizzare. Ricordo una storia del jazz in dieci volumi. Quando gli feci notare che di storie del jazz già ce n’erano parecchie in giro, con sorriso malizioso mi disse che ovviamente lo sapeva benissimo e che quindi la sua era diversa da tutte le altre, perché non fatta sulla base del gusto e del criterio estetico/critico del compilatore, ma sulla base delle vendite dei dischi in America nell’arco di mezzo secolo o giù di lì, «e così si capiscono molte cose…». Il che fa anche intuire che razza di collezione di 78 giri avesse messo insieme.
Ma Roberto era un collezionista sui generis. Lui stesso diceva: «In Italia abbiamo sostanzialmente due tipi di collezionisti di dischi: quelli di musica lirica e quelli di jazz. Ma quasi tutti hanno un grosso difetto: sono irrazionalmente gelosissimi della loro proprietà, che tengono chiusa sotto chiave nei loro scaffali. Invece bisogna propagare questo materiale, farlo conoscere, pubblicarlo in Lp. Io la vedo così». E infatti sfruttando il materiale da lui messo insieme, nelle nostre riunioni serali vagheggiavamo (si tenga presente che il mercato discografico di 25-30 anni fa era assai meno ricco di quello di oggi) una serie sui grandi repertori urbani (fado, tango, blues), sulla Carter Family, sul gospel, sugli spiritual, sui work-song, e così via. Purtroppo la generosità e lungimiranza del maestro Sciascia non arrivò al punto di varare anche queste iniziative. Ma Roberto non gliene voleva. Una volta mi affidò per una ricerca il catalogo dei suoi 78 giri di musica rurale nordamericana: era oltre un centinaio di fogli dattiloscritti. E un giorno gli chiesi se dovendo scegliere tra un libro e un disco, entrambi fuori catalogo, per cosa fosse meglio optare, data la ovvia premessa che entrambi fossero di nostro interesse. Decisissimo mi rispose: «Il disco. Per i libri la probabilità di una riedizione è sempre maggiore».
Lo vidi l’ultima volta nel mese di giugno del 2001. Ero andato a casa sua per chiedergli materiale e consigli per un lavoro che mi era stato proposto. Come al solito si mostrò totalmente disponibile, entusiasta, e non mancò di incitarmi: «Tu solo puoi farlo, tu sei un “culo di pietra”». Era il riconoscimento alla mia tenacia lavorativa. In quell’occasione mi fece vedere alcuni suoi vecchi dischi ora in versione Cd: li aveva trovati in Francia e ne era rimasto sorpreso e felice. Oggi la incomparabile collezione di dischi di Roberto, insieme con tutto il resto dell’immenso materiale conservato nei suoi archivi, è custodita presso il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport del Canton Ticino. Un segno d’omaggio e fiducia verso la propria terra d’origine ma soprattutto un ennesimo segnale della sordità e inadeguatezza delle nostre strutture politiche e amministrative.
(da Il Cantastorie, settembre 2003)