Avevo vent’anni. Più o meno. Con tanti entusiasmi e nessuna certezza. Tra i miei impegni figurava ancora in primo piano quello come redattore in una rivista musicale. Mi fu chiesto di intervistare il Maestro riconosciuto della musicologia italiana, Massimo Mila, un uomo che aveva fatto la Resistenza, che aveva trascorso quattro anni nelle prigioni fasciste per delazione di una spia dell’Ovra, il pruriginoso scrittore Dino Segre, in arte Pitigrilli; che era stato amico di Pavese, di Argan, di Sapegno, di Bobbio e di tanti altri facenti parte di quell’irripetibile gruppo, gli allievi del liceo D’Azeglio, che ancora tanto pesava nella cultura italiana. Era stato tra i fondatori della casa editrice di Giulio Einaudi e, tra i molti, aveva scritto un aureo libretto che in nessuna biblioteca di noi musicomani poteva mancare, Breve storia della musica.
Mi procurai il suo numero di telefono e lo chiamai a Torino. Rispose lui. Gentile, quasi stupito: ma sì, era ben felice di concedermi l’intervista. Propose un giorno e un’ora e mi chiese se mi andavano bene. Ad ogni buon conto, si segnò il mio numero di telefono, «Perché all’Università non si sa mai cosa può accadere». Soffiavano già i primi venti sessantotteschi. Il giorno dopo mi chiamò: c’era l’ipotesi di uno sciopero dei mezzi pubblici. Si offriva di venirmi a prendere con l’automobile alla stazione. Dissi di no, che non era proprio il caso, che mi sarei arrangiato.
Mi arrangiai, e in una giornata grigia e che prometteva pioggia suonai alla sua porta, in un palazzo della vecchia Torino, quella signorile, austera e un poco polverosa che rimandava ai tempi di Guido Gozzano e al suo mondo di amori sommessi. Venne lui ad aprire, mentre io facevo appena in tempo a scorgere la svelta figura di un’anziana signora con grembiule bianco che si eclissava in una stanza laterale. Mila mi fece accomodare nella sua fucina: una grande stanza, tappezzata da libri, con libri sulle sedie, sulle poltrone, sopra e sotto il pianoforte, sulle mensole delle finestre, sui caloriferi, in terra, tra i piedi… Con buona volontà e garbate scuse, gli riuscì di creare un posto perché potessimo sederci a parlare, mentre io accendevo il piccolo registratore che avevo portato con me; lui aveva osservato la mia manovra con un cenno di assenso. Era di bassa statura, con gli occhi vividi, il viso sereno, il sorriso bonario e i movimenti pacati. Indossava pantaloni grigi, camicia bianca e golf scuro. Metteva a proprio agio.
Posi la prima domanda e il Maestro cominciò a parlare. L’accento era profondamente torinese, quieto, musicale, rasserenante. Parlava con tono regolare, lentamente, senza forzature, usando vocaboli semplici, comprensibili a chiunque, mentre un leggero sorriso gli illuminava il volto e gli occhi ammiccavano furbescamente da dietro le lenti. Rispondeva preciso, senza mai interrompersi, senza mai ripetere una sola parola, sicuro, come stesse tenendo una lezione che ormai da tempo sapeva a memoria, ma che qua e là infiorettava di considerazioni argute e attuali. Pensai a quanto fossero fortunati i suoi allievi del corso di Storia della musica all’Università. Parlammo di musica classica, di orchestre, di grandi solisti, di repertorio, di concerti. Ma anche di dischi, di mercato, di gusti, di mode, della situazione della cultura in Italia, di giovani e di anziani, della sua generazione e della mia. Non solo: espresse il suo sincero apprezzamento per certe canzoni del repertorio leggero, disse che Mina e Battisti erano bravi, che gli piacevano. Apprezzava il jazz, come già in anni prima della guerra aveva apertamente scritto. Parlò anche di alta fedeltà, sottolineando il fatto che, a suo parere, le tante manopole che arricchiscono gli impianti hi-fi sono il mezzo attraverso il quale chi non sa suonare uno strumento ha l’appagante impressione di sentirsi comunque protagonista. Mi disse che non era affatto necessario “capire” la musica: Napoleone non ne capì mai nulla ma divenne Napoleone. Mi offrì un caffè e, se li gradivo, dei biscotti oppure un gianduiotto.
Passarono due ore. Si scusò, ma adesso doveva proprio congedarmi perché a L’Espresso aspettavano un suo articolo. Si alzò, e facendo slalom tra i libri, raggiunse l’alta finestra che dava sulla strada. Guardò prima in basso, poi, più a lungo, in alto: «Sta per piovere», disse. «L’accompagno alla stazione con la macchina». Anche questa volta rifiutai il passaggio. Mi fece strada fino alla porta e poi sulle scale. Mi salutò affabile: «Se ha ancora bisogno di me mi chiami pure». Rimase un poco a guardarmi mentre mi avviavo per scendere. Fece un ultimo cenno e chiuse l’uscio.
A casa, a Milano, il giorno dopo mi misi a trascrivere la lunga intervista. Rimasi stupefatto, mentre comprendevo appieno il significato della frase «parla come un libro stampato». Vocaboli, grammatica, sintassi, filo logico, senso, addirittura la sottintesa punteggiatura: tutto perfetto. Tutto già messo in bella copia: visto si stampi. Quando ebbi finito, chiamai Mila al telefono per comunicargli che gli avrei inviato il testo per approvazione. Rispose con la solita cortesia: «Lei aveva un registratore. Se ha trascritto quello che ho detto non c’è proprio bisogno che me lo mandi, va bene così». Sicurezza in se stesso e fiducia negli altri. Un caso unico, o quasi.
Nella giornata di Santo Stefano del 1988, Massimo Mila morì in un ospedale torinese. La cronaca diceva che era stato trovato riverso sul pavimento: forse nella notte aveva cercato di alzarsi. Io non avevo più quei vent’anni e lui era arrivato vicino agli ottanta. Mi era da sempre rimasto ben chiaro nella memoria l’indelebile incontro di quell’uggioso pomeriggio torinese; scrissi una sintetica lettera al Corriere della Sera per brevemente raccontarlo, sottolineando con forza quanto il Maestro fosse umanamente disponibile anche verso i giovani di nulla esperienza. Attesi invano che il ricordo venisse pubblicato.