[Titolo di un romanzo del francese Alain-Fournier, uscito nel 1913 e noto in Italia come “Il grande amico”. Crescita e amicizia]
Quando incontrai il mio migliore amico avevamo entrambi meno di vent’anni. Fu una sera, a Milano, in un appartamento non ricordo perché vuoto. Eravamo il solito gruppo di aspiranti qualcosa: attore, cantante, poeta, scrittore, giornalista, musicista… e la discussione andò a finire sui poeti beat. A quell’epoca era un argomento in cui andavo alla grande, e mi lanciai: «Non ci si può limitare a criticare una società se non si ha da proporre una reale alternativa». Il che era vero solo in parte, ma l’idea mi piaceva e pensavo che avrebbe fatto effetto. Lo fece, non so se su tutti, ma certamente su almeno uno.
Uscimmo che erano le due di notte passate da un pezzo. L’aria era offuscata dalla scighéra, l’umida nebbiolina milanese. Il mio futuro migliore amico disse: «Mi è piaciuto quello che hai detto». Lui veniva da un’esperienza in teatro come assistente alla regia al Piccolo: «Se non sei come loro non vieni considerato, non ti guardano nemmeno». Io gli dissi che ero iscritto a medicina e che amavo la poesia, soprattutto quella americana. «Sì», convenne, «l’unione tra poesia e medicina ha avuto i suoi rappresentanti, più di una volta». Indagai: «Perché hai abbandonato il teatro? Dicono che promettevi bene». «Anche vivere è un’arte, una grande arte», tagliò corto, scoppiando per la prima volta in quella sincera risata che avrei imparato a riconoscere e che mi avrebbe accompagnato per anni.
Da quella notte cominciammo a vederci regolarmente. Si usciva quasi tutte le sere per incontraci, noi del gruppo, dietro le quinte di un teatro, tra i tavoli di un cabaret, in un’osteria semibuia e dai prezzi particolarmente abbordabili, oppure all’uscita di un cinema dove nemmeno eravamo entrati. Si parlava di romanzi, di film visti e da vedere, del passato, del futuro, addirittura di ragazze e di quei viaggi che mai avremmo fatto. Si stava insieme per ore. Spesso ci si prendeva in giro. All’inizio il gruppo via via acquistava nuovi adepti, ma passata la mezzanotte ecco che cominciava a sgretolarsi nell’ora che avanzava. Noi due eravamo una presenza fissa e alla sera il mio telefono faceva da punto di coordinamento, tanto che i miei genitori quando squillava dopo le 8 dicevano all’unisono, e con tono rassegnato: «È per te».
Io, che già lavoravo da circa un anno, ero tra quelli che avevano qualche soldo in tasca, e fatti i debiti controlli e i risicati calcoli, non lesinavo salame e bicchieri di vino. Il mio grande amico non aveva mai una lira, anche perché quando miracolosamente se la trovava in tasca voleva subito spenderla offrendo a tutti, e si ritrovava inevitabilmente al punto di partenza. Buttava giù i bicchieri tutto d’un fiato. «Tu non sai bere», gli dicevo con accondiscendente rimprovero. A volte gli accennavo alle mie scorribande all’Usis, lo United States Information Service, dove andavo a caccia di poeti. «Vado a copiare testi. Li trascrivo su un’agenda vecchia di dieci anni…». Lui annuiva: «Beato te che sai l’inglese», ma non provava invidia né rimpianto. Lo colpì l’epitaffio di Jonathan Williams scritto per la morte del quasi omonimo William Carlos: «Sono contento che tu sia morto il mese in cui viene primavera». Da quella volta, alla fine di ogni nottata di parole e di sogni, mi lasciava dicendo «Sono contento…», accompagnando le parole e il sorriso con l’ormai inevitabile risata.
Era magro, alto, vestito con quello che capitava e con la barba quasi sempre di alcuni giorni, ma indossava sempre un’innata eleganza morale. Predicava la non-violenza, non si arrabbiava se per provocarlo lo chiamavano «prete», era molto colto ma non cercava mai di imporre acriticamente il proprio punto di vista e i propri giudizi. Era sempre disposto ad ascoltare. Discuteva e se alla fine si trovava messo alle strette scoppiava nella sua risata, accompagnata da un «bon!» che chissà da dove aveva tirato fuori.
Quando scoppiò la Guerra dei Sei giorni tra arabi e israeliani andammo a dare il nostro nome come volontari del servizio civile, perché pensavamo giusto mettersi dalla parte di Davide contro Golia. Uscendo mi disse: «Ti prenderanno. Hai visto come si sono fatti attenti quando hai detto che sai usare una radio ricetrasmittente». Non fummo chiamati. La guerra durò troppo poco, solo il tempo sufficiente perché mia madre, che chissà da chi aveva saputo della nostra bravata, mi chiedesse: «Da te me l’aspettavo… e adesso?».
Suo padre era stato un buon avvocato ma poi, non so per quale ragione, era stato radiato dall’ordine e passava il tempo creando quadri con ritagli di carta colorata e di giornali che incollava su un cartone. Aveva partecipato anche a qualche collettiva. Una sera il migliore amico venne con me a casa di un mio vecchio compagno di scuola appartenente a una famiglia ricca. Il compagno aveva organizzato una festa. A vedere quel lusso e quelle ragazze eleganti, belle e prepotentemente fascinose, qualcosa di autolesionistico scattò dentro il mio migliore amico. Si ubriacò di brutto e dovetti trasportarlo a casa sua per scaricarlo nel buio della piccola anticamera. Mentre chiudevo con mille precauzioni la porta sentii la voce della sua mamma, una signora francese di sicura classe e inconfondibile gentilezza: «Che cosa c’è? Sei tu?». Il giorno dopo lui mi telefonò ridendo: «Che sbronza, che sbronza! Sono rimasto tutta la notte sul balcone…».
Una sera eravamo fuori in tre: lui, io e il sedicente nipote di un noto critico letterario, un ragazzo che mai avevamo visto prima e che mai avremmo visto dopo. Il trio si era formato casualmente davanti al liceo Manzoni. Verso le 2 di notte ci ritrovammo in un’osteria all’estrema periferia della città. Qui fummo avvicinati da un tipo anacronisticamente elegante, alto, con i capelli biondicci e una palandrana che gli scendeva fino alle caviglie. Poteva avere una quarantina d’anni. Mostrava un tratto piuttosto signorile. Attaccò discorso e la conversazione sul nulla andò avanti parecchio tempo. Noi due fumavamo mentre il nipote del noto critico letterario si ubriacava. Si ubriacò a tal punto che d’un tratto e senza una ragione cominciò a inveire contro il tizio in palandrana e quelli che erano con lui. Li coprì di insulti, così che passato il primo momento di divertita sorpresa, quella gente si fece minacciosa. Il mio migliore amico già si era messo di mezzo per difendere il compagno di una nottata sbilenca, quando in tizio in palandrana disse agli altri: «Lasciate perdere, sono afani»: persone di poco conto, innocue, che non contano nulla.
Ritrovatici noi due soli, non potei non fargli notare di avere rischiato grosso mettendosi in mezzo, ma il mio amico non si impressionò: «La vita è così, non sai mai come andranno le cose. Spesso sei vivo solo per caso». Lui aveva avuto un fratello gemello, e quando erano ancora molto piccoli il padre li aveva portati a fare un giro in automobile. Si erano sistemati in tre sul sedile anteriore, di quelli a divanetto, come usava allora. Il padre alla guida, poi lui, poi, ultimo a salire, il fratellino. Percorrevano una strada di campagna, quando un ciclista sbucò improvvisamente da un viottolo laterale: il padre sterzò bruscamente e il fratellino sbatté la tempia contro il finestrino. Mandò un grido acutissimo e morì. «Vedi, se fossi salito in auto dopo mio fratello, adesso qui con te ci sarebbe lui». Non era un teorema perfetto, ma faceva pensare.
Nel mese di luglio, di non so quale anno, si sparse la voce che avrebbe finalmente sostenuto l’esame di maturità, a suo tempo rimandato per dare retta alla “sirena” del Piccolo. La notizia suscitò ilarità generale, perché lui era per definizione “stramaturo”. Comunque in tre o quattro ci recammo al liceo dove avrebbe sostenuto la prova. Volevamo assistere all’avvenimento. Lo vedemmo dietro una vetrata mentre confabulava con alcuni ragazzi che sembravano suoi figli. Aveva la barba ben rasata, un abito insolitamente elegante e l’abituale sorriso scanzonato. Da dietro il vetro ci fece cenno tenendo ritto verso l’alto il pollice della destra. Fu promosso, anche se ce la mise tutta per ottenere il contrario, intavolando con gli esterrefatti esaminatori una non richiesta discussione su argomenti di carattere etico e religioso.
Quando mi innamorai della mia futura moglie, il primo al quale volli presentarla “ufficialmente” fu lui. Disse «è bella». Dal canto suo lui era sempre innamorato, non necessariamente di una ragazza, più spesso di un’illusione. «Dobbiamo amare anche chi ci vuole male», diceva, e un giorno partì per l’India. Ci scambiammo una sola lettera. Nella sua mi dava un indirizzo per la mia prossima missiva, nella mia gli riferii di avere visto un film che mi aveva colpito molto, Soldato blu. Scrissi anche «Sto ascoltando la Pastorale di Beethoven… chiudo qualche nota nella busta». Una volta rientrato in Italia mi disse che le note erano evaporate mentre apriva la busta, però la mia idea «era stata oniricamente molto gentile». Aggiunse che in India aveva trovato la “vera Margherita” (naturalmente lui era Faust) e ora si sentiva assolutamente felice. Cantava «Ay Marieke Marieke je t’aimais tant / entre les tours de Bruges et Gand». Le canzoni di Jacques Brel lo appassionavano.
Nel gruppo non figurava nemmeno una ragazza perché chi ne aveva una voleva restare con lei, e non con gli altri sciamannati, e rimaneva momentaneamente fuori dalla comune. Non era certo una regola scritta ma succedeva così. Non so perché, una volta, lui, io, la sua compagna di allora e la mia futura moglie andammo a fare una gita di due giorni a Varigotti. In quel periodo il mio migliore amico era “accampato” a Torino, così passai a imbarcare entrambi con l’automobile sottratta al mio consenziente genitore. Ci sistemammo in una pensioncina, ovviamente di poco prezzo, poi andammo a mangiare pesce di vario genere in una trattoria affacciata sulle onde, all’inizio di un pontile in legno. A un tratto la sua compagna – piccolina, magra, dall’aria triste e quasi spaventata – ebbe un’improvvisa crisi di epilessia, malattia che la perseguitava da sempre e di cui io nulla sapevo. Lui la prese tra le braccia, la strinse forte forte sussurrandole parole d’amore per tranquillizzarla, mentre le accarezzava la testa e la ninnava. La crisi durò a lungo ma dopo nessuno di noi vi fece mai cenno.
Un giorno andai a trovarlo sul posto del suo nuovo improbabile lavoro. Aveva trovato un posto al trenino che allora c’era al parco. Vendeva i biglietti, aiutava i piccoli passeggeri a salire sul vagoncino, poi si metteva cavalcioni del tender e da quella posizione guidava la locomotiva, ovviamente falsamente a vapore in realtà mossa da carburante di tipo a me ignoto. Ogni tanto faceva uscire sbuffi di vapore dalla ciminiera e lanciava l’inconfondibile fischio, tra l’entusiasmo dei piccoli e la sorridente e placida soddisfazione delle madri assiepate intorno al recinto entro il quale serpeggiavano le rotaie. Il biglietto prevedeva un numero preciso di giri, ma il mio migliore amico ne lasciava compiere sempre qualcuno in più, incantato ad ascoltare il vociante cicaleggio dei passeggeri e a osservare le mani salutanti del materno pubblico. Una sera lui e il suo “capotreno” vennero a mangiare a casa mia. Cucinai bistecche alla piastra, che il capotreno considerò con sospetto perché «ho letto che fanno venire il cancro». Lui ne fece fuori una razione doppia.
Più volte ci scambiammo regali. Io gli donai alcuni dischi di Woody Guthrie e lui a me un libretto di piccole prose di Camillo Sbarbaro. Quando scrissi il mio primo libro cercai una giustificazione per un atto tanto azzardato: «Non è quello che avrei voluto scrivere… ma sai, per cominciare…». Lui assentì e mormorò «bon». Gli feci omaggio di una copia che, come seppi più tardi, regalò a un comune amico.
Ammirava molto mio padre, anche se mai lo incontrò di persona. Quando lo sentiva suonare il violino andava in estasi, non per la musica ma per l’idea in sé. Quando improvvisamente mio padre morì gli regalai uno dei suoi libri, lui in cambio mi diede un “quadro” del suo di padre. Mia madre gli voleva molto bene e lui la ricambiava dello stesso affetto. Lei ridendo lo chiamava «quel matto» e lui quando entrava in casa andava subito a salutarla.
Il mio matrimonio alla lunga ci divise. Venne qualche volta a casa mia ma si vedeva che non era a suo agio. Le mogli in genere nutrono una sorta di prevenzione nei confronti del “migliore amico” del marito, forse perché pensano che con lui lo sposo abbia compiuto chissà quali riprovevoli imprese. Lui credo intuì e non si fece quasi più vivo. Però un giorno mi chiamò: «Guarda la Tv questa sera. Sono nello sceneggiato». Era vero: eccolo nella prima inquadratura arrivare di spalle, avvicinarsi a una casa, entrare attraverso la finestra. Ecco un primopiano della sua faccia sghemba, poi ecco lui che furtivamente si accosta a una scrivania e apre un cassetto… si ode uno sparo e il mio migliore amico stramazza sul pavimento. Nei giorni seguenti gli telefonai: «Non mi è sembrata una grande interpretazione», lo provocai di proposito. «Lo so, ma mi serve per arrotondare. In verità adesso sto lavorando con Ermanno Olmi. Un grande… quello dell’Albero degli zoccoli. Forse è un nuovo inizio». Ci incontrammo, andammo a bere una birra all’osteria Il Tubetto sui Navigli, in quel momento praticamente vuota e un poco triste. Poi mi portò a vedere dove lavorava con Olmi. Mi salutò con il tradizionale «Sono contento» e la breve risata.
Alcuni anni dopo mi chiamò al giornale: «Ho bisogno di parlarti». «Va bene, ma adesso proprio non posso… richiamami». Non richiamò. Si sparse la voce che lavorava in un centro per malati di Aids. Oggi più nessuno sa dirmi nulla di lui.