Io avevo diciannove anni e Parma meno di una quarantina. Era biondo, occhi azzurri e sempre di buonumore. Tifava Milan, ma spesso la domenica invece di andare alla partita portava la moglie a ballare. Faceva il “compositore a mano”, cioè metteva insieme tutti i pezzi che in tipografia formano la pagina di un giornale. Ogni riga di testo una riga di piombo; poi le lettere e le parole dei titoli, degli occhielli, dei sommari, una lettera alla volta, a mano; si aggiungevano le didascalie, si inserivano i box con relativo titolo, si lasciavano gli spazi “bianchi” per le fotografie e se il pezzo era lungo si mettevano sottotitoli e altro ancora. Sempre con infinita attenzione affinché la pagina non si smontasse.
La gente come Parma possedeva una capacità quasi magica per tenere insieme tutto quel piombo, tutte quelle tessere differenti di un unico mosaico racchiuso nel rettangolo di una cornice in metallo. Alla fine dell’opera si teneva unito quell’ingombrante e pesante rompicapo con un semplice spago fatto girare molto stretto intorno alla cornice, e infine fissandolo con l’abile giravolta di una robusta pinzetta. Era il nodo della conclusione: l’ultimo tocco.
Parma passava la giornata dietro un grande bancone alto fin sopra la sua cintura, e che nel ripiano sottostante conteneva una serie sovrapposta di grandi e larghi cassetti (le cosiddette Casse Rossi) divisi all’interno in piccoli scomparti contenenti le lettere necessarie per formare quei testi che non rientravano nel compito del linotipista (per intenderci, il tizio seduto davanti a una tastiera di una monumentale e sferragliante “macchina per scrivere”). Il linotipista creava le righe che via via formavano il testo: una fila più o meno lunga di piccoli “lingotti” di piombo reso liquido nel forno-serbatoio di quello stesso marchingegno. Il risultato era un lungo serpentone di righe del peso complessivo di qualche chilo, che poi sarebbe stato collocato dal “compositore a mano” nella pagina in divenire seguendo lo schema dell’impaginato fornito dal committente.
Sistemate le righe di testo, quando si passava a comporre un titolo o un sommario, Parma faceva a mano anche questa operazione. Tirava fuori una delle tante Casse Rossi che stavano nella capace “pancia” del bancone su cui lavorava, se la metteva di fianco e, senza nemmeno guardare, pescava le lettere metalliche nei piccoli scomparti rettangolari in cui lo spazio del cassetto era diviso e le calava nel posto giusto. Non sbagliava un colpo. Avrebbe potuto tranquillamente lavorare con gli occhi chiusi. Quando io, stupito e ammirato, glielo feci notare, ribatté: «Questo è niente, dovresti vedermi quando smonto le pagine… so farlo anche al viceversa». Era l’orgoglio per “le cose ben fatte” che contraddistingue molte categorie di lavoratori. Parma era sempre in grado di fare quel lavoro di precisione mentre parlava con il collega che gli stava a fianco e con il quale lo scambio di battute era continuo, tra scherzi, guai di famiglia, speranze, problemi con i figli, vacanze sognate, avanzamenti sempre rimandati e realtà inalterabili. Io pensavo che persone come Parma fossero fornite di due cervelli.
Stava in piedi per ore. Quando arrivavo alle 9 del mattino lo individuavo immediatamente in fondo alla sfilata dei banconi suoi “compagni”: spuntava là, al posto che da sempre era stato il suo e sempre lo sarà. Ogni tanto canticchiava, ma quando io ero presente non mancava di darmi anche buoni consigli, del tipo di quelli che ti danno le persone che il lavoro lo fanno, non solo ne parlano. «Scrivi quanto basta, non una riga in più. Ogni riga composta con la linotype ha un costo che deve essere pagato… spezza l’articolo in tanti capoversi, perché se ci sono errori o parole da aggiungere basterà rifare poche righe e non una mappazza di testo che non finisce più… anche le correzioni aggiuntive si pagano, ripensamenti compresi… metti le cose importanti all’inizio, in modo che se c’è da tagliare si può tranquillamente eliminare la coda… se ti viene comodo, inserisci qualche capoverso che possa essere eliminato senza problemi, facendo però bene attenzione di non far saltare qualche cosa che hai messo nel sommario o addirittura nel titolo…». Stavo a sentire e mettevo in pratica i suoi insegnamenti. Un giorno il direttore del giornale mi convocò: «Vedo che con i testi te la cavi e che già conosci i trucchi del mestiere… chi te li ha insegnati?». Glielo dissi, e lui assenti soddisfatto: «Sei in buone mani. Stallo a sentire e vedrai che per il lavoro potrai solo guadagnarci».
Con il passare del tempo quando c’era un problema di difficile soluzione, il “capo” mi buttava le bozze sulla scrivania, accompagnando il gesto con parole diventate un normale ritornello «Vedete di risolverla, tu e il tuo amico». Se glielo riferivo, Parma faceva finta di esserne contrariato: «Questo non fa parte del mio lavoro. Io sono un operaio non un tecnico o un grafico», ma in realtà ne era orgoglioso. E poi era contento di lavorare anche per noi: noi allora scrivevamo di musica e canzoni, un mondo che lo intrigava.
Alla base della nostra collaborazione “galleggiava” sempre una domanda inespressa, che un giorno venne decisamente a galla: «Quanto tempo ci vuole per comporre ogni riga?». Non è come scrivere a macchina. Le righe si formano lettera per lettera e ogni lettera ha una sua matrice di ottone che si imprime nel piombo fuso e poi si devono inserire anche gli spaziatori, che sono gli spazi bianchi del dattiloscritto, quelli tra una parola e l’altra. Infine le righe formate dalle matrici devono avere tutte esattamente della stessa giustezza, cioè essere lunghe uguali. Parma prese dalla linotype una riga appena nata e me la mise in mano: una barretta calda alta circa due centimetri, lunga quanto la colonna del giornale e larga pochi millimetri, sui quali c’era in rilievo il testo. «Quanto ci vuole? Il tempo necessario».
Una volta, con un po’ di malizia, gli chiesi se gli era mai caduta una pagina. «Sì, più di una volta, agli inizi», precisò con un sorriso di autocomprensione, «un disastro che pagai caro recuperando tutto e cercando di rimettere insieme quanto era andato in mille pezzi. Ci volle un sacco di tempo e i compagni colsero l’occasione per canzonarmi. Sono lezioni che non si dimenticano».
Parma era un vero virtuoso. Una sera, eravamo in avanzata chiusura del giornale, mi accorsi di un errore abbastanza imbarazzante: «contante» invece di «cantante». Il classico refuso di stampa che disorienta e forse diverte il lettore ma fa sicuramente andare in bestia il direttore. Le linotype erano in pausa e quindi non era possibile rifare la riga incriminata. Lui notò il mio sgomento: «Non ti preoccupare, ci penso io», mi rassicurò, «ti faccio vedere un fuoriclasse all’opera». Cercò tra le righe di piombo scartate una che avesse una lettera “a” e con la sega circolare isolò la sola lettera che gli interessava. Poi prese la riga con l’errore e con la stessa procedura da microchirurgo estrasse la “o”: nello spazio che si era creato inserì la lettera giusta. In breve tempo il gioco fu fatto e la nuova bozza ne testimoniò l’efficacia.
Quello che colpiva nel lavoro dei compositori a mano era il fatto che lavorassero con la pagina capovolta, a gambe all’aria. La stranezza era dovuta al fatto che il piombo era solo un passaggio intermedio verso la “matrice” definitiva, quella destinata alla stampa. Mi spiegò: «È come allo specchio. La pagina rivoltata ci permette di continuare a leggere da sinistra a destra». Io non capii mai fino in fondo la faccenda, ma il fatto è che funzionava. Si arrivava così al “bozzone” finale, con più pagine al torchio per l’ultima verifica, e anche in quel momento Parma era ancora in grado di intervenire con un ultimo “salvataggio”, perché «con me non è mai troppo tardi».
A Natale gli portavo in regalo dei dischi. Lui preferiva quelli che piacevano anche a sua moglie, «roba che si può ballare». Li prendeva e li ficcava nel suo armadietto di metallo, accanto al cappotto e alla giacca. Sottolineava il gesto dicendo «Vedi che anch’io mi vesto da persona normale… Non porto sempre questa palandrana nera che mi fa sembrare un becchino». Una mattina sorprendentemente lo vidi in un nuovo colore: il blu. «Che cosa succede?», chiesi. «Hai deciso di cambiare partito?». «No, è stata mia moglie. Mi ha messo un chiaro out out: o cambio colore o cambio moglie. Ho deciso per il colore. In fondo non mi dispiace una nota più viva in questa catacomba».
La tipografia era una delle più grandi di Milano. Si trovava in un ampio scantinato dove mai entrava un raggio di sole e la luce era quasi sempre quella artificiale. A volte, al mio arrivo, Parma mi chiedeva «È giorno o notte? È inverno o estate? Piove o nevica?»: scherzava, ma nemmeno troppo. Lo vidi solo una volta alla luce del giorno: era una domenica in Piazza del Duomo e me lo ritrovai improvvisamente davanti vestito della festa. «Non mi riconosci?», mi apostrofò ridendo, «sono sempre io, ma travestito da borghese». Fuori da quella cantina senza ore, giorni e stagioni sembrava un altro. In mezzo a una folla domenicalmente appagata, con bambini squittenti, piccioni zampettanti e turisti con macchina fotografica faceva la sua bella figura..
«Beato te che scrivi», mi disse salutandomi alla fine di una giornata tipograficamente abbastanza complicata, «almeno ti ricordi di avere una testa in grado di pensare. In certi momenti io dimentico addirittura il nome della mia Laura… con il rumore di sedici linotype in azione tutte insieme e l’odore del piombo e dell’inchiostro… a volte oltre alla testa mi mancano pure le gambe… sempre in piedi per ore e ore. E le mani, dopo aver maneggiato tanto piombo hanno perso il tatto… non “sento” nemmeno più le guance di mia moglie». Aprì le mani e me le dispiegò davanti agli occhi: nere, ruvide, con le unghie ridotte al minimo fisiologico consentito e il profondo segno dello spago sul mignolo.
Arrivò il giorno in cui mi disse a mezza voce: «Ti saluto, io ho finito». «Come? Vai in ferie?». «No, mi mandano in pensione. Non è ancora ufficiale, ma dopo quindici anni che ci vediamo dietro questo maledetto-benedetto bancone voglio essere io a fartelo sapere. Sei stato un amico». Avrei voluto dirgli «Anche tu lo sei stato, e mi hai insegnato molte cose», invece indagai «Perché in pensione?». «Perché noi abbiamo fatto il nostro tempo, adesso arrivano i computer, arriva la fotocomposizione: uno si mette davanti a una tastiera a battere sui tasti e il testo e la pagina gli si creano davanti agli occhi, sullo schermo. Noi non serviamo più». Semplificava, ma era vero.
Lo guardai. Erano passati anni dal primo giorno, da quando aveva promesso al “capo” «non gli permetterò di combinare guai», e guai non ne avevo mai combinati, anche grazie a lui. Adesso Parma non era più biondo ma grigio e con molte rughe in più; io non ero più un ragazzo ma inalberavo un paio di baffi già brizzolati. Ora avevo una moglie e una figlia, ero cresciuto, ero andato in giro, avevo scritto centinaia di articoli, avevo conosciuto persone importanti e altre meno importanti ma forse più sincere, avevo cullato speranze e sopportato delusioni, ero stato in posti lontani, avevo sostenuto qualche battaglia che ritenevo giusta, avevo polemizzato, qualche volta avevo perso, ma avevo vissuto. Lui era sempre rimasto dietro quel bancone. In piedi.