Era un vetusto cinema e portava il nome di un fiore. Un fiore per ricchi. Apriva la sua porta nella facciata di un antico palazzotto della vecchia Milano, in una strada del centro, sghemba, che non portava da nessuna parte e che sembrava tornare su se stessa. Vicino c’era la bottega di un carbonaio e un poco più avanti l’immensa piazza, con la basilica, l’università e la caserma della polizia. Era la prima sala d’essai: piccola, stretta, lunga, con 126 posti, uno schermo di dimensioni in proporzione e la inusuale particolarità di un pavimento in leggera ascesa, o almeno così sembrava. I sedili in legno gemevano spudoratamente a ogni movimento, anche il più lieve e involontario.
Noi ci si andava senza ragazze. Sempre in eletta schiera, perché proiettavano film di comprovata denominazione d’origine certificata, opere che richiedevano, a visione ultimata, un’approfondita disamina collettiva, un confronto tra esperti o sedicenti tali. Là, superato l’antro semibuio dove troneggiava la silente cassiera e dove incombevano ponderose tende color vino che sapevano di polvere e di fumo, tra i tanti film, mi dedicai avidamente a quelli che segnarono i miei pochi anni da mancato cinefilo: Il posto delle fragole, Per il Re e per la Patria, Fuoco fatuo, Il Vangelo secondo Matteo, Jules e Jim. Il meglio dell’impegno umano, psicologico, sociale, pacifista e politico, nei nomi di Bergman, Wajda, Losey, Malle, Truffaut e Pasolini.
Le dotte disquisizioni, che mai trascendevano di tono e di volume, perlopiù avevano luogo il giorno dopo, eleggendo come sede del confronto una poco lontana taverna, prodiga di buon vino e ovattata convivialità. Qui eravamo rassegnatamente accolti dal proprietario, di cristallina parlata toscana, e dal cameriere dalla scarsa capigliatura e dalla virulenta affabulazione, il quale, sottobanco, ci allungava cospicui lasciti di bottiglie semipiene ordinate in precedenza da avventori il cui portafoglio era meglio fornito di tutti i nostri messi insieme. Quelle residue libagioni andavano a integrare le risicate ordinazioni che avevamo appena elencato all’accigliato gestore.
Quando il “sor Gino” finalmente decideva di abbassare la saracinesca e ci invitava, con parole di popolare immediatezza, ad andare a dormire, noi sostavamo ancora e a lungo nel grande spiazzo antistante l’osteria, tra macerie lasciate dalla guerra e automobili posteggiate alla rinfusa. Qualche gatto ci osservava con occhio felpato, qualche pipistrello incrociava la luce giallastra dei solitari lampioni e un ubriaco alla ricerca della porta di casa ci mandava ostentatamente in qualche lontano paese. Intanto io mi ero innamorato di tutte le evanescenti fate evocate dalle nostre parole, delle loro immagini di celluloide e in bianco e nero, una dopo l’altra, trovando in ognuna, per un istante, l’ideale da sempre vanamente sognato.
Dopo anni, la sala dal nome di un fiore per ricchi, fastosamente riaprirà i battenti, ma ormai erano quasi quarant’anni che una sala cinematografica non conosceva la mia ombra.