Noi

7a Si fa sera

A Milano, all’incrocio tra via Messina e via Fioravanti, nel cuore di quello che ormai è un dilagante quartiere cinese, si trova un albergo dall’impegnativo nome di Hermitage. Un albergo che orgogliosamente inalbera quattro stelle e che ha conosciuto una breve rinomanza anche per l’annesso ristorante. Vi fanno ancora tappa i giornalisti Rai in confortevole trasferta. Una larga pensilina ha il compito di proteggere dalla pioggia e dal sole gli ospiti in arrivo e in partenza mentre un allampanato e gallonato usciere di colore monta la guardia accanto alle vetrate dell’ingresso aprendo con sussiego le portiere dei taxi o delle automobili, inevitabilmente di grossa e costosa cilindrata. 

Al di là della pensilina, proprio sul vertice dell’incrocio, si fa notare un corposo cespuglio tosato grossolanamente a palla e che, debordando nello stretto marciapiede, costringe i pedoni a scendere sulla carreggiata. È alto circa tre metri e largo altrettanto. Fitto fitto, non mostra il proprio interno che tiene celato in una protettiva semioscurità. Da là dentro, nell’ora che precede il tramonto, fuoriesce e si spande nella via il cinguettio petulante di decine di piccoli uccelli. Forse passeri, forse storni, forse altri ancora… 

Anche oggi ho udito quel rassicurante brusio che per l’ennesima volta mi ha riportato agli anni dell’infanzia e della prima giovinezza. A quel rito serotino che precedeva il riposo notturno e che era una immancabile costante per accompagnare l’ultimo calare del sole nel giardino di Desio. Improvvisamente, senza alcun preavviso, l’aria vibrava di quei richiami lanciati da centinaia di piccoli volatori, i quali per antica e inconsapevole consuetudine raggiungevano le rispettive postazioni dove avrebbero trascorso la notte. Un brusio talmente fitto che finiva per creare l’impressione di un unico suono: ininterrotto, costante, quasi fosse emesso da una sola ugola. Un segnale allegro, festoso, beneaugurante, dispensatore inconsapevole di serena gioiosità. Il ritrovo prescelto era la zona dove crescevano, uno accanto all’altro, decine di bambù. Una zona del giardino di fronte all’ingresso principale della casa, ai bordi del cortile coperto da grigia ghiaia. Al tramonto il sole radente illuminava le cime dei bambù, indorandole d’oro e aggiungendo festa a festa. 

Io me ne stavo seduto sulla panchina che si trovava sotto l’imponente faggio rosso e beatamente ascoltavo estasiato, divertito da quel particolarissimo baccano che riempiva l’anima di cielo. Poi mi alzavo e, fatti i pochi metri che mi separavano dal brulicante rifugio, con fanciullesca perversione scuotevo un bambù, provocando il levarsi in volo di una nube alata, in un frastuono che aumentava di intensità. Gli uccellini si sparpagliavano nell’aria in un semicerchio largo e frusciante, e per alcuni minuti tornava il silenzio che annunciava l’imminente oscurità. Ripreso il mio posto di osservazione dalla panchina, ammiravo le evoluzioni di centinaia di piccole ali e il rientro, uno alla volta, dei volatori che puntualmente tornavano a occupare il proprio trespolo. Lentamente il cicaleggio si rimpossessava nuovamente dell’aria, fino a quando il sole era ormai scomparso sotto l’orizzonte segnato dalle cascine circostanti e il lungo sospiro che separa il giorno dalla notte aveva cessato il suo naturale percorso. Allora i piccoli uccelli tacevano. 

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