Noi

5a Incipit

Mio fratello, durante il liceo, era stato esentato dall’ora di ginnastica. I medici l’avevano vietata a causa della gravissima polmonite che pochi anni prima, durante le scuole medie, lo aveva costretto a letto per settimane e poi a un periodo di recupero durato mesi, tutto sulle spalle di mia madre. Perdette un anno, ma lo avrebbe poi puntualmente recuperato con relativo reinserimento nel normale corso di studi. Al liceo, dunque, godeva di un’ora inoperosa da trascorrere in palestra (questo non si poteva evitare), accoccolato sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro e le inutili scarpe da ginnastica ai piedi. Un giorno si trovò a fianco di un altro “compagno di sventura” (l’ora di ginnastica radunava più di una classe per volta). Un ragazzo che aveva con lui una straordinaria somiglianza, tanto che molti li scambiavano per fratelli.

A quell’epoca mio fratello condivideva con me la passione per la musica folk americana. In me era nata vedendo un dimenticabilissimo film, che con l’America nulla c’entrava – Viaggio al centro della Terra, da un romanzo di Verne –  ma nel quale uno dei personaggi, che si supponeva trovarsi da qualche parte sotto la crosta terrestre, suonava svogliatamente la chitarra. Era scattata la molla: acquistai una chitarra per 12mila lire e imparai un po’ di accordi per accompagnare il mio incerto, e molto probabilmente stonato, canto. Fece seguito la caccia ai dischi, per lo più introvabili, ma che a volte si potevano reperire in un piccolo e agguerrito negozio che apriva la sua unica vetrina nella piazza davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie. Lo gestiva un ascetico personaggio, che di cognome faceva Proserpio ma che mio padre, in onore al suo aspetto, chiamava Barbigero (mio padre l’aveva conosciuto quando era andato a cercare il disco con il concerto per flauto e arpa di Mozart, registrato da mia zia su etichetta Angelicum). 

Una mattina, durante quell’oziosa ora di ginnastica, mio fratello si mise a canticchiare: «Captain tell me true / Does my sailor sail with you…». Il suo quasi sosia rizzò le orecchie: «Come la sai ?». Tra i due “esonerati” nacque una passeggera amicizia. Poi mio fratello partirà per i ben più sicuri lidi del Politecnico e per un lavoro che lo porterà per anni in giro per il mondo, io legai con il suo sosia, che si chiamava Bruno (diventerà un importante etnomusicologo e per anni dirigerà il Servizio Cultura Popolare della Regione Lombardia) e con il quale instaurai un frenetico scambio di dischi, di quelli “introvabili”, che entrambi riversavamo golosamente su nastro. Ci vedevamo quasi tutte le settimane, aggiornandoci reciprocamente sulle rispettive scoperte. Lui suonava molto bene la chitarra e aveva una bella voce baritonale. Io annaspavo. Ogni tanto, alla sera, andavamo a cantare e strimpellare in un’osteria di Brera, gestita dalla madre di un mio momentaneo conoscente. Quando Bruno veniva a casa mia la prima cosa che ansiosamente chiedeva era «Tua madre ha fatto la torta di frutta?». La torta di mele. Con Bruno avevamo anche cullato l’improbabile e per me improponibile progetto di trasferirci in Australia. Insieme scoprimmo le strisce di Charlie Brown, e insieme andammo a trovare l’individuo che con la sua incontenibile collezione di comics stava collaborando al primo numero del mensile Linus. Acquistammo il primo numero e continuammo a collezionarlo per diversi anni.

Un giorno Bruno mi comunicò che, a casa sua, domenica ci sarebbe stato Bobby Solo, allora sulla cresta dell’onda. Ci andai, ma Bobby non venne. Al suo posto venne un ragazzo più o meno della nostra età, piccolino e magro, con la erre moscia, la voce sussurrante e la capigliatura di un indefinibile color cenere (c’era chi lo chiamava Stoppa). Era il figlio del padrone-direttore di un importante giornale specializzato nei dischi e nella musica. Suonammo, cantammo, parlammo di fumetti, di Charlie Brown, di poeti beat, di folksinger americani e di altro ancora.

Dopo qualche mese Stoppa mi invitò a casa sua. Mi fece ascoltare De Andrè e Dylan Thomas, per quest’ultimo servendosi di un disco nel quale “l’acrobata della parola” (la definizione è mia) era recitato da Giancarlo Sbragia, ovviamente in una versione italiana. Tra le poesie mi colpì indelebilmente Conversazione delle preghiere. Mario mi imprestò anche un’antologia di poeti americani curata e tradotta da Roberto Sanesi. Per me un altro inizio. Qualche settimana dopo mi chiamò per chiedermi il primo articolo della mia vita. Il soggetto era Bob Dylan, al suo secondo 33 giri (The Freewheeling). Trascorsero alcune settimane, e mi offrì di collaborare alla rivista di suo padre. La mia prestazione durerà 16 anni, durante i quali arrivai a occupare il posto di condirettore (al fianco di Roberto Galanti) e raggranellai altre collaborazioni e altri incarichi: scrissi per EpocaL’Europeo, il giornale della Gioventù Musicale Italiana, Strumenti Musicali, CoroSorrisi e CanzoniLa Notte; curai la collana di musica classica della casa discografica di Mina; feci l’ufficio stampa della casa di strumenti musicali Monzino; scrissi le note di copertina di una serie di dischi della Cgd; scrissi i programmi di sala per i concerti di musica classica della Rai di Torino; lavorai a mezza giornata (o quasi) per una casa specializzata in dischi di musica etnica e popolare occupandomi anche del catalogo classico e del jazz; tenni seminari nelle scuole sulla cultura orale; organizzai concerti di jazz nella sala dei valdesi di Milano;  entrai a far parte nel direttivo della Società dei Critici Discografici e di quella di Etnomusicologia; tenni delle trasmissioni per Rado Montecarlo. Mi divertivo. Mi venne anche tenacemente offerto di entrare nella redazione di Sorrisi e Canzoni, ma rifiutai.

Intanto mi ero sposato e avevo avuto una figlia. Così quando arrivò la proposta di far parte della redazione di un nascente settimanale della Rusconi dedicato allo spettacolo, dopo mille esitazioni (e l’insistenza sarcastica di mia moglie) accettai. Iniziava un’altra storia. Meno felice.

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