«Ti Giusèpp, te tegnerà anmò i bigatt quest ann ?». «Se el bagaj nass e viv, l’Ernesta la stà a cà e tegnim i bigatt; se el bagaj nass e creppa, l’Ernesta la và in fabrica e tegnim no i bigatt». Mio padre citava questo pragmatico scambio di parole quale esempio di rassegnata lungimiranza contadina, di chiara visione della vita e delle sue possibili alternative, che, come le nuvole in cielo, non dipendono dalla nostra volontà. I “bigatt” sono i bachi da seta, il “bagaj” era il figlio nascituro, “l’Ernesta” la moglie incinta di Giusèpp, che terrà i bigatt anche quell’anno, perché il piccolo nascerà, vivrà e si chiamerà Enrico detto Richetto.
Giuseppe era l’uomo che si occupava da tempo non computabile del giardino e dell’orto di mia Nonna, a Desio. Quando aveva qualche differenza di opinione con l’Ernesta, era solito sottolineare la fastidiosa circostanza con un lapidario commento, che non cercava repliche: «Chi donn vecc lì in süfistic ‘me ‘na bèstia»: sono delle rompiscatole, perché «i donn in minga gent». Giuseppe in paese era noto come “El Rubarel”, soprannome che nulla aveva a che vedere con la poco commendevole attività di “sottrazione” dell’altrui roba, bensì al fatto che era nato nella cascina Rubara. Perché la suddetta cascina portasse questo nome non l’ho mai saputo.
Giuseppe era piccolo, con le gambe a parentesi, eredità di una non troppo lontana stagione di forzate carenze alimentari. Era stato oggetto di innumerevoli e un poco crudeli scherzi di mio padre ragazzo. Se saliva sull’albero a cogliere le ciliegie lasciando ai piedi della scala le grosse scarpe, una volta sceso vi trovava dentro e occhieggiante un minaccioso riccio di castagna; se si metteva furtivamente da parte qualche succoso frutto in un angolo che riteneva al riparo da indiscrete ingerenze, scopriva che le albicocche erano state sostituite con altrettanti escrementi gessosi del cane Trento. Ma certo non poteva denunciare nessuno per non rivelare anche il proprio tentativo di indebito accaparramento. Giuseppe disponeva per proprio uso e consumo di un vasto appezzamento nell’orto, al quale si dedicava con assidua partecipazione e qualche “sperimentazione” in ambito vegetale che non portò mai da nessuna parte. Da adulto, mio padre con lui parlava in dialetto “bosino”, il vernacolo non scritto della più recondita Brianza. Giuseppe aveva lavorato a lungo nella locale fabbrica di tessuti, che all’alba raggiungeva pedalando pacatamente con qualunque condizione meteorologica il cielo gli proponesse; andato in pensione, si era dedicato orgogliosamente ai suoi amati compiti di giardiniere e uomo di fiducia. Era il suo status e lo rivendicava.
Giuseppe possedeva una intonata e bella voce tenorile. Nei tempi prima della Seconda guerra mondiale veniva pubblicamente reclutato nell’estemporaneo coro locale per partecipare alle azzardate recite liriche che infiorettavano la stagione desiana. I protagonisti erano ovviamente professionisti dell’ugola (o sedicenti tali), il resto lo forniva generosamente il paese. Per Aida Giusèpp indossava la vestagliona da chimico del fratello di mia Nonna e calzava i sandali in cuoio di mio Nonno, e almeno per quella volta benediceva la sua ridotta statura in forza della quale nel coro doveva piazzarsi in prima fila, dove tutti l’avrebbero ammirato. Del mondo della lirica aveva una personalissima interpretazione: il soprano Poli-Randaccio nel suo dizionario diventava “la Pola Randagia”, mentre Il Trovatore era «un fioeu che l’han trouvà i zingher», un ragazzetto trovato dagli zingari.
Per mio fratello e per me rappresentava l’arrischiata e rischiosa simbiosi tra un amico, un collaboratore e un delatore. Qualunque cosa facessimo – una piattaforma di bambù tra le biforcazioni più alte di un pino, un ramo spezzato a un incolpevole susino, una zappa senza più il manico, oppure ci aveva sorpresi mentre ci abboffavamo con sistematico puntiglio dei preziosi lamponi che la Nonna ogni anno trasformava, nella interminabile penombra di una ribollente cucina, in paradisiaco sciroppo – potevamo essere certi che il misfatto sarebbe stato inevitabilmente riportato alla Sciùra. La quale in verità non disse mai nulla ai timorosi colpevoli, che comunque per un certo periodo avrebbero cercato di far sì che i loro passi si incrociassero il meno possibile con quelli della “padrona”.
Un giorno, ormai anziano, Giusèpp andò da mio padre nella redazione dove ricopriva il ruolo di redattore capo. Scoppiò a piangere, perché “il Richetto” non trovava un lavoro. Mio padre si diede da fare per consolarlo e incoraggiarlo, ma constatata la vanità dei suoi sforzi, gli promise che certo avrebbe fatto qualche cosa. Il giorno dopo convocò Richetto e gli comunicò che sarebbe stato stato assunto. Richetto era ancora lì quando mio padre morì.
L’ultima volta che vidi Giusèpp fu quando andai a trovarlo in ospedale, ormai vecchio e senza futuro. Mi recai accompagnato dalla mia annunciata moglie. Ne fu immensamente lieto, forse addirittura onorato, e con il soffio di una voce prossima a spegnersi, mi disse in un orecchio: «Bravo… bravo… l’è bela… come l’è bela. T’è stà pròpi un bravo bagaj».