Noi

3a Dinna

La chiamavano Aldina, o meglio, Dinna. Un’abitudine che era propria anche di mia madre. Dinna non aveva un’età o forse le aveva tutte. Portava un camice nero che indossava 365 giorni all’anno (366 nei bisestili). Era di approccio bonario, corpulenta e si muoveva a passi ondulanti da marinaio stanco. C’era il fondato sospetto che non avesse le gambe perché quasi mai usciva da dietro lo scuro e logoro bancone del suo emporio di «Alimentari in genere», per esseri umani e per animali. Era bianca come una mozzarella di bufala, portava i capelli nerissimi (tinti?) tirati sul cranio rotondo, indossava occhiali e ci vedeva benissimo. Nel suo emporio si trovava un po’ più che di tutto. Fu là che assaporai la mia prima Nutella, che ancora non si chiamava così. Era Ferrero, fatta con cacao (forse) e nocciole. Se ne stava in un minuscolo contenitore di plastica a forma di scodellina e la si assaporava con un apposito mini-cucchiaino, pure di plastica, puntualmente fornito con la confezione.

Andare da Dinna era l’inevitabile inizio della liturgia che accompagnava lo “sbarco” della mia famiglia in quel piccolo paese delle prime colline piemontesi. Mia madre già il giorno dell’arrivo si recava in quel negozio-magazzino per fare provvista di quanto sarebbe servito al soggiorno, che poteva protrarsi anche per più di un mese. Noi vivevamo in una frazione del paese principale, quindi mia madre cercava di rifornirsi di più di quanto richiedesse l’immediato necessario. L’incontro con Dinna era sempre segnato da un’atmosfera di cordialità e familiarità, ma non mancava quella componente di spirito sabaudo che impedisce eccessi emotivi o di men che rispettosa amicizia. Non era come rivedersi dopo quasi un anno ma molto più pacatamente come dopo pochi giorni di assenza.

Dinna veleggiava nel suo antro semibuio (le finestre erano oscurate dalla debordante mercanzia e la luce entrava solo dalla porta) con inalterabile sicurezza, orientandosi senza la minima esitazione in quel mondo che solo lei conosceva, seguendo le ordinazioni che mano mano mia madre elencava. Ripeteva a voce alta la merce desiderata e andava a recuperarla con un sorriso di soddisfatto orgoglio sulla faccia. Era così con tutti: riso, veleno per topi, biscotti, latte, diserbanti, mangime per conigli, pasta, pomodori pelati, rastrelli, scope di saggina, farina, tubi per annaffiare, gomma da masticare, strofinacci, cioccolato, caffè… tutto da tempo immemorabile aveva un posto preciso e inamovibile negli scaffali e nel suo cervello. Solo lei sapeva orientarsi senza esitazioni in quella terra incognita. A volte, accostando un’ordinazione all’altra, esprimeva un giudizio elogiativo su quella merce. Mia madre ascoltava e assentiva, perché si fidava.

Aldina quando vergava il conto, scandiva ad alta voce le singole voci, con un tono che faceva pensare che succhiasse una caramella allungando le vocali intermedie: paa-ne, laa-tte, zucchee-ro… Forse, in realtà, aveva proprio l’acquolina in bocca, raggiungendo il culmine al momento supremo e inappagabile della somma totale. Fare il conto per lei era una incomparabile golosità. Usava foglietti di carta ricavati da fogli più grandi e tagliati in quattro parti uguali. Li teneva in una scatoletta di misura acconcia; prendeva il primo, lo metteva sul bancone, poi, inclinata in avanti, appoggiata su un gomito, dava inizio al rito. Le cifre fluivano precise fino alla singola liretta. Ignorava il significato della parola “sconto”, ma era inappuntabile nei resti. Probabilmente rimpiangeva i bei tempi dei centesimi. La scrittura era molto bella, regolare, allineata, con le parti sottili e larghe della singola lettera come allora insegnavano alle elementari. Usava una cannuccia con pennino, che intingeva in un calamaio sbeccato posto davanti a lei. La somma la faceva secondo le regole classiche delle scuole dell’obbligo, una colonna dopo l’altra con relativo riporto. Asciugava l’inchiostro non con la carta assorbente ma usando una spruzzata della farina gialla che teneva in una scodella posta lì sul bancone. La spolverava sul foglietto, poi prendeva il foglietto per un angolo, lo alzava in verticale, gli dava alcuni colpetti con il dito indice dell’altra mano per liberarlo dalla farina e lo consegnava con quell’aria soddisfatta che non ammetteva né repliche né contestazioni. «Eccooo», diceva ammiccando da sopra gli occhiali. Mia madre prendeva in mano il portafoglio e saldava subito.

Chi non poteva pagare subito teneva un conto aperto, che lei concedeva fino a quando, scaduto il termine da lei stessa stabilito, le permetteva di passare alle vie di fatto (così diceva la voce comune). Si sarebbe rivalsa sulle proprietà. In questo modo – e forse anche prestando soldi a un tasso a tutti ignoto – divenne proprietaria di prati, boschi, case e cascinali. Era una potenza, da tutti riconosciuta e temuta ma anche rispettata. Una volta all’anno, a Natale, si recava in chiesa, dall’altra parte della piazza, proprio davanti al suo troneggiante negozio, e in particolari giornate, soffocanti e stranamente per lei inoperose, era stata vista addirittura sulla balconata (in realtà, il tetto piatto della sottostante autorimessa) che si apriva al di là della tenda a catenelle e che segnava il confine tra il suo regno e il mondo.

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