Nel Biellese li chiamano “bargé”, pastori. Si occupano tanto delle vacche quanto delle pecore e delle capre. D’estate vivono sull’alpeggio, nel silenzio del vento che piega l’erba, fa ondeggiare i rami, avvolge i crinali delle montagne e cambia il cielo. Sovente un improvviso temporale preceduto dal rotolio del tuono ricaccia le marmotte nelle loro tane, fa tacere gli uccelli e rimpiangere la presenza di un riparo sicuro. Poi passa.
Mio zio pittore conosceva molto bene un bargé delle alte colline. Si incontravano all’osteria o a volte anche su in montagna, nella malga o sul pascolo, dove mio zio si recava per dipingere. Lo chiamava Monsù, cioè “signore”, perché aveva veramente un tratto quasi aristocratico e una postura sempre eretta. Alla sera, mentre le bestie dormivano, creava rudimentali mucche di legno, il cui corpo era ricavato da un ramo grosso quanto giudicava fosse necessario, il muso veniva intagliato rozzamente a una sua estremità, le gambe e le lunghe corna erano parti di rami piccoli e, per le sole corna, ritorti. La creazione misurava una ventina di centimetri di lunghezza. Mio zio me ne regalò tre o quattro, che io tenevo sulla scrivania.
Un giorno incontrai Monsù. Ci ritrovammo un pomeriggio dei primi di aprile, nella sua baita, davanti a una fumante polenta, alcune aringhe affumicate e un vino rosso leggermente asprigno. Monsù era vestito alla montanara: camicia di lana colorata, giacca e pantaloni di fustagno del tipo che vuole imitare il velluto, pesanti scarponi chiodati consunti dal tempo e dai passi. Sedevamo davanti a un tavolo di legno. Tutto l’essenziale mobilio era in legno. Una parete ospitava il camino, là dove le fiamme avevano appena cotto la generosa polenta. C’erano anche un lavello e uno stipetto appeso al muro con dentro l’occorrente per cucinare e per mangiare. Dietro una spessa tenda penso fosse collocato il letto. Notai che dal soffitto pendeva una lampadina, e ne dedussi che il locale era stato raggiunto dalla corrente elettrica. Probabilmente lusso di recente acquisizione.
Monsù aveva il volto abbronzato dalle lunghe ore passate al sole e al vento, segnato da profonde rughe ai lati della bocca. Capelli e barba, una volta castani, ora erano ingrigiti, il che faceva risaltare il nero profondo degli occhi, grandi e inquisitori. Parlava, con voce chiara e leggermente roca un dialetto imbastardito dall’italiano. Parlammo a lungo, perché la sua vita era l’oggetto di una mia ricerca etnografica “sul campo”, come confermava il piccolo registratore a nastro che avevo con me e che lui sbirciò con sospetto ma senza nulla chiedermi. A me interessavano soprattutto le canzoni che cantava da solo o in compagnia, e come venissero celebrate le ricorrenze annuali.
Il giorno del patrono, il primo dell’anno, l’inizio della primavera, il carnevale, erano tutte occasioni per fare festa, e la festa era occasione per cimentarsi nel cosiddetto “albero della cuccagna”: omaggio liberatorio da una fame atavica, agognato premio per una fatica comune che avrebbe ripagato tutti… o quasi. Simulacro di un’ascesa personale verso un nuovo stato senza più penuria di cibo e incertezza di futuro.
Monsù sull’argomento era un’enciclopedia. Soprattutto quando rievocò la prima volta che aveva raggiunto la vetta del lungo palo, lassù dove appesi a una grande ruota vi erano salame, prosciutto, coppa, bresaola, formaggi di genere vario e due o tre fiaschi di vino: «Quel bün», sottolineò godendo del ricordo. Si infervorava. Dapprima aveva tentato la salita da solo, come vuole la prassi, ma il grasso che ricopriva il palo lo aveva ricacciato a terra. «Sgujava… sgujava… boja faùss», scivolava scivolava, e a nulla valeva coprirsi di sabbia o di segatura.
Si fece ricorso a un vecchio e collaudato sistema: uomini uno sulle spalle dell’altro, con l’ultimo ad arrampicarsi sui compagni che finalmente raggiungeva l’ambita meta. L’ultimo era stato lui, perché il più magro e leggero. Dalla ruota, con un coltello, aveva tagliato le corde che legavano il goloso premio e lo aveva fatto arrivare in basso, tra le braccia protese dei compaesani in delirio che gridavano il suo nome. «La cuccagna l’è parei la vita”, la salita è come la vita, chiosò tra sé e sé, perché Monsù era anche un uomo saggio: da soli non si arriva da nessuna parte, in compagnia si può arrivare ovunque. L’albero della cuccagna come metafora della vita.