Al tramonto di una limpida e rara giornata del mese di novembre dell’anno 1957 uno scelto gruppetto di tre ragazzetti si era accampato sul terrazzo che fungeva da tetto di una casa nel centro della città. I tre avevano un’età compresa tra i 12 e i 14 anni e si erano spontaneamente appassionati alle incalzanti vicende della nascente corsa allo spazio. In quel tardo pomeriggio scrutavano il cielo, che lentamente andava evaporando nel rossore via via sempre più invadente degli ultimi raggi di un sole che segnava il contorno dei tetti e delle case, non ancora assurto al ruolo aristocratico di “skyline”. Tra l’oro c’erano agitazione e titubante attesa: i giornali avevano annunciato che in un ben determinato spicchio di cielo, a quell’ora – minuto più minuto meno – e a una data altezza sopra la linea dell’orizzonte, si sarebbe vista una “stella” muoversi, catturata dagli ultima raggi dell’astro morente. Una “stella” artificiale ben visibile da terra, a patto che la serata fosse limpida. C’erano dunque le giuste condizioni per l’entusiasmante rilevamento.
La “stella” in realtà era il secondo satellite artificiale mai messo in orbita dall’Uomo: lo Sputnik 2. Il nome, come oramai tutti sapevano, significava «Compagno di Viaggio». Si trattava di una struttura di metallo del peso di poco più di cinquecento chili, lanciata dal poligono sovietico di Bajkonur e destinato a restare in orbita per 162 giorni. Ma il particolare che rendeva il fatto eccezionale nella sua già indubbia eccezionalità stava nella presenza, al suo interno, di un essere vivente: una cagnolina di nome Kudrjavka, ma da tutti familiarmente chiamata Laika, il nome della razza.
Quando i tre già cominciano a disperare, mentre osservano la bussola che non può mentire e i propri orologi sincronizzati su un segnale che non può sbagliare, quello radiofonico fornito alla Rai dall’Istituto Galileo Ferraris di Torino, ecco scattare l’istante X. Lassù nel cielo, sullo sfondo rossastro dei raggi che si stanno attenuando, appare una piccola ma brillante luce bianca: chiara, in regolare movimento, come un veliero su un mare senza onde. Sembra scivolare sul nulla mentre dalla città si leva il solito ininterrotto brusio di una vita che non conosce pause.
Sul volto dei tre si disegna la gioia del successo, la consapevolezza di avere visto qualche cosa che rimarrà nella storia, di essere testimoni di un fatto che segna il primo passo verso una nuova era. La visione dura poco, forse solo un minuto o due, il cielo si fa scuro, e con l’invasione dell’oscurità il “Compagno di Viaggio” non incontra più raggi luminosi da riflettere laggiù, verso gli estasiati terricoli. Cala il sipario, e mentre riguadagnano i piani bassi, in uno dei tre scrutatori sembra farsi strada un invisibile e meno entusiasmante dubbio: se invece si fosse trattato di un aeroplano?