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22a Il tempio delle mele

Varcata la soglia si veniva avvolti da un profumo: dolce, leggero, forse anche leggermente sensuale, vagamente stordente e insinuante. Per entrare in quell’ampio locale, al primo piano della vecchia costruzione che sorgeva in fondo al giardino e che al piano terra fungeva da deposito per gli attrezzi di impiego contadino e da autorimessa, si saliva una scala esterna, con i gradini in pietra greggia e la ringhiera leggermente traballante.

Arrivati in cima, sotto i rami del pino che spingeva le sue braccia fino al sovrastante tetto, si impugnava la vecchia, banale e grossa chiave, la quale, inserita nella toppa, un poco traballava ma serviva allo scopo. Sovente però dopo più di un inutile tentativo. «Devo sempre far cambiare la serratura», sottolineava la Nonna, quasi a mo’ di scusa, mentre il cane fremeva e guaiva per irrompere in quel misterioso locale che di solito gli era vietato, «ma tra tutte le incombenze che mi impongono la casa e il giardino, finisce che me ne dimentico… o, sia pure con la migliore intenzione, rimando». E mentre i nipoti si scambiavano alle sue spalle un’occhiata di benevola intesa, finalmente la porta di antico legno dipinto da una ormai offuscata vernice color bordeaux, si lasciava aprire. Ecco il profumo.

Era un “antro” lungo una quindicina di metri, largo tre o quattro, senza finestre sui lati. Di finestra ce n’era una sola, che si apriva sulla facciata che guardava il viale e che, sommersa dai rami della debordante vite del Canada, si riusciva a spalancare con fatica e qualche ben assestato colpo con le mani aperte. Mancavano lampade elettriche di qualunque forma o genere e quindi era quella l’unica fonte per godere di un poco di luce, una condizione che vietava la visita nelle giornate prive di sole o nelle ore più prossime al tramonto. Si andava per lo più nel primo pomeriggio, d’estate, affrontando il disagio di un caldo poco confortevole in quel “tempio” dei ricordi e della polvere.

Qui nel corso dei decenni avevano trovato accoglienza e rifugio i beni non più in uso da generazioni. Era una specie di parigino Mercato delle Pulci, di milanese Fiera di Sinigaglia o di torinese Porta Palazzo. Armadi, comodini, sedie, poltroncine, mensole, testate di letti, vasi, bottiglie vuote, riviste e giornali, calendari di anni dimenticati, soprammobili, dagherrotipi di antichi e ormai ignoti personaggi, stampe, statuine di coccio, pentole e padelle con i manici rotti e il fondo consunto, pupazzi di panno, scarpe spaiate e stivali bucati, specchi a chiazze che riflettevano solo parte della figura, catini di metallo ammaccati, tendaggi, brocche, lampade da tavolo in eterno cortocircuito…

Al centro, la struttura dalla quale si spandeva quel suadente e misterioso profumo che riempiva l’aria. Due ripiani rettangolari in sottili canne palustri e bordi rialzati di compensato alti pochi centimetri, fissati al soffitto da quattro robusti fili di ferro. La particolarità stava nel fatto che i fili non raggiungevano il pavimento, ma si fermavano a mezzo metro d’altezza, con il primo ripiano. Tutto l’inusitato armamentario poteva tranquillamente basculare come una insolita culla nella altrettanto insolita stiva di una nave. I due ripiani di canne erano usati dalla Nonna per depositarvi, al fine di raggiungere la completa maturazione, i frutti in debordante abbondanza che le piante del giardino producevano. La distanza dal pavimento era voluta perché nessun animaletto terricolo di transito potesse raggiungere quel ben di Dio.

I frutti di gran lunga predominanti erano le mele. Mele «come quelle della Strega di Biancaneve» sottolineava la Nonna, mentre a cadenza regolare di due/tre giorni, cane al seguito, andava a rigirarle, a tastarle, a odorarle, a recuperare quelle ormai giunte alla giusta maturazione e che quindi andavano portate a far mostra di sé sulla imponente alzata che troneggiava sul ripiano della credenza in sala da pranzo. Se erano troppe, il surplus era distribuito tra i vicini, soprattutto contadini della domenica e operai della locale filanda. Erano proprio quelle mele la sorgente principe del profumo che avvolgeva come una nuvola impalpabile il sempre curioso visitatore.

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