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21a Un angelo a Capodanno

Era la sera del 31 dicembre del 1965. Il luogo per il ritrovo era ben noto: Osteria della Lanterna, in via Lanzone, davanti al liceo Manzoni, culla arcigna degli anni di tormentato e tormentoso cammino di crescita di quasi tutti i convocati. L’Osteria, che giustificava il proprio nome in forza di una corrosa lanterna appesa all’angolo della strada, era moderatamente gelida grazie a una vecchia stufa che inutilmente pretendeva legna. I due anziani gestori, lei avvolta in uno scialle azzurrognolo e lui con un giaccone di cuoio, se ne stavano appollaiati dietro il logoro bancone, al quale si appoggiavano con i gomiti, tra bicchieri che aspettavano di essere lavati e bottiglie di vino a prezzo popolare e mezze vuote. A un tavolo si era accoccolata una bionda e pingue prostituta di antico pelo, avvolta in una palandrana di improbabile colore cobalto. Sorrideva materna alla compagnia che via via si andava formando, non certo con intento di ammiccante invito ma più semplicemente sotto lo stimolo di ricordi ormai appannati.

I convocati formavano una eterogenea combriccola di animi allo stato brado: attori del Piccolo Teatro, aspiranti giornalisti, poeti speranzosi, universitari di laboriose attitudini, insegnanti molto precari per i corsi serali della Benemerita. Mancava solo il “bello”, quello che tanto somigliava a un fascinoso attorgiovane allora divo riconosciuto in teatro e in televisione. Arrivò, avvolto in una sorta di anacronistico tabarro nero, insieme con la sua compagna dal nome da Commedia dell’Arte. Disse che una sua amica all’ultimo momento aveva perduto il cavaliere che avrebbe dovuto condurla a una festa. C’era qualcuno che poteva andare a prenderla? La sorte volle che fosse Lui: era l’unico spaiato e in più disponeva di una vecchia ma ancora arrancante Fiat 600. E ci andò.

La strada era semibuia. Suonò al citofono è Lei scese. Dio, com’è bella ! Un volto luminoso, capelli nerissimi, pelle candida, denti color neve e due occhi enormi, blu: «Angelo sbadato, ti sei scordato di cambiare il colore degli occhi !». Le mani erano come quelle di Eleonora Duse, avrebbe detto enfaticamente un giorno la stagionata sorella del pittore Aroldo Bonzagni, abituale frequentazione di Lei per alcuni appuntamenti di lavoro. Poi, riunitasi la combriccola e trasferitasi alla rinfusa in un’anonima abitazione di un anonimo ospitante, Lei si tolse il cappotto e mise in mostra una silhoutte da indossatrice, gambe comprese.

Lui non saprà mai riferire che serata fu quella, se mai ci fu un capodanno o qualche cosa che gli somigliasse. Se venne stappato champagne o gazzosa. C’erano stati solo quegli occhi, le mani, le gambe… E un attillato vestito nero con una miniscollatura centrale dalla quale occhieggiava l’attaccatura dei seni, rotondi e pieni. Lei aveva riso con gli altri, muovendosi con grazia, accettando complimenti e distribuendo sorrisi. Poi Lui l’aveva riaccompagnata a casa, trovando la forza (forse non era gazzosa ma proprio champagne) di chiederle il numero di telefono. Durante il tragitto era venuto a sapere che aveva un fratello «bellissimo» e più giovane di un anno, che frequentava l’Accademia di Brera. Lei lavorava in una casa editrice sulla cresta dell’onda; passava le giornate nei musei, nelle pinacoteche, nelle biblioteche e insieme con i fotografi della casa editrice andava a casa dei critici d’arte e dei collezionisti. Lui da due anni galleggiava nel mondo della carta stampata e della musica.

Pochi giorni dopo Le telefonò. Avrebbero cominciato a vedersi. Ci sarebbe stata anche una serata di ballo (unica e mai più ripetibile nella vita di Lui). Ballo lento, naturalmente. Dopo qualche settimana, Lei venne a casa sua. Mentre guardava giù dalla finestra nella grande piazza sottostante, Lui le si fece vicino e cercò di baciarla. Lei di scatto si ritrasse: sorpresa? stupita? inorridita? Lui non si sorprese perché era quello che si aspettava. Le cose avrebbero ripreso come prima: qualche telefonata, qualche giro in macchina, qualche aperitivo (analcolico, per Lei). Così per diciotto mesi. Da parte di Lei dignitoso distacco, di Lui placida rassegnazione.

Finalmente si ritrovarono sul divano del salotto di Lui. In penombra. Senza l’ausilio dello champagne, ma solo quello ben più robusto e condizionante delle endovene di caffeina che da qualche tempo faceva per contrastare gli attacchi di una inestirpabile cefalea. Lui trovò, a sua stessa insaputa, il coraggio: «Ti amo», le sussurrò. «Anch’io», disse Lei. E lo baciò sulla bocca. La stanza, il mondo, il tempo, Lui stesso, sparirono. Tutto sembrò immobilizzarsi e si sentì sprofondare, felice e immemore, in un mondo che non esisteva. Ebbe la sensazione di un pugno nello stomaco, di un improvviso vuoto nella testa, forse anche di una leggera nausea, mentre il respiro gli mancava e il cuore non c’era più. «Questa è la storia di un sogno dal quale non mi vorrò mai svegliare», pensò, o immaginò di pensare: «Forse non sono io… forse non è Lei… forse non siamo noi».

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