La mattina dopo l’assassinio di John Kennedy, mio padre convocò me e mio fratello: «Andiamo», disse. «Dove?», domandai. «Venite e vedrete», rispose asciutto, lui che non era solito comandare. Uscimmo nella luce uniforme e senza ombre di una anonima giornata milanese di fine novembre e salimmo sul tram per Piazza della Repubblica. Il traffico non era ancora quello aggrovigliato della metropoli “europea” e furono sufficienti pochi minuti per raggiungere la meta. Il consolato degli Stati Uniti si trovava nel Grattacielo sull’angolo con viale Tunisia. Fuori ciondolava a mezz’asta la bandiera a stelle e strisce. Agli ascensori c’era già un piccolo capannello di gente in ordinata fila, in attesa del proprio turno per salire. Entrammo nella prima cabina libera e raggiungemmo il piano indicato sulla pulsantiera da una targhetta in ottone. Anche sul pianerottolo c’era un piccolo assembramento, e un signore di mezza età, in abito scuro e marcato accento americano, regolava il traffico. Mio padre spiegò: «Ho pensato fosse giusto venire e fosse giusto che veniste anche voi… non so se sia stato quel grande uomo che ora si dice, e forse un giorno sarà criticato, ma ha fatto la storia. Forse ha evitato una terza Guerra mondiale. È giusto essere qui». Entrammo in un’anticamera spoglia, con le pareti bianche, alcune poltrone e un piccolo tavolo con il registro per le firme. Appese alle pareti sovrastavano il tavolo una grande fotografia con il volto del Presidente assassinato e una bandiera abbrunata. JFK appariva rassicurante, giovane e con quel sorriso inalterabile che aveva rubato il cuore a milioni di donne. C’erano fasci di fiori e alcune corone. Ci avvicinammo al tavolo e apponemmo la nostra firma: prima mio padre, poi mio fratello, ultimo io. Ci osservò con accorata attenzione una signora in lutto, americana dalla testa ai piedi: «Bravi… bravi… grazie», mormorò. La guardai e vidi che il suo volto era rigato di lacrime. Dopo alcuni minuti eravamo di nuovo in strada.
Passarono pochi anni, e durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam radunata sotto il Grattacielo, vidi una ragazza americana che piangeva e malediceva il presidente Kennedy, quello che aveva rinfocolato la carneficina che le aveva strappato il fratello.