Era la pianta di fichi più vecchia del grande giardino. Fichi piccoli, settembrini, mielosi e gustosissimi, soprattutto se si lasciavano appassire un poco sulla pianta prima di coglierli. L’albero si alzava di fianco al grande cancello d’ingresso, quello attraverso il quale le automobili entravano nell’ampio spazio ghiaioso davanti alla villa, dalla facciata impreziosita con piccole rose selvatiche color del sangue e grosse rose coltivate dal colore del granoturco maturo.
Quella pianta di fichi aveva attraversato una vita difficile. Molti anni prima, un vorace insetto un giorno aveva iniziato a scavare profonde gallerie all’interno del suo tronco. Invisibile dall’esterno, aveva messo in uno stato di precaria stabilità l’albero e il suo ampio ombrello fronzuto, che lambiva il primo piano della casa. Le foglie ingiallivano precocemente, i frutti si facevano sempre meno abbondanti.
C’era stato un consulto: giardinieri, contadini, persone amanti del verde, sedicenti esperti e semplici curiosi dalle idee confuse ma tracimanti. Apparve subito evidente che la situazione era disperata, che non c’era più nulla da fare se non abbattere l’albero. E con esso i suoi frutti così mielosamente attraenti. Eppure…
Eppure un estremo tentativo si poteva ancora fare. Senza troppa speranza. Un drastico intervento chirurgico con il quale svuotare quasi completamente l’interno del fusto, lasciando solo quella parte a contatto con la corteccia che avrebbe potuto apportare il nutrimento necessario alla sopravvivenza. I rischi erano due: che la pianta morisse entro breve tempo, oppure che sopravvivesse ma che, così indebolita nella struttura portante, si accasciasse a terra al primo temporale d’agosto. L’operazione ebbe luogo in una torrida giornata di fine luglio, tra mille commenti, tante previsioni, qualche cenno di ottimismo e sospiri che quasi erano una prece per un vecchio e generoso amico che se ne stava andando per sempre.
L’“amico” resistette. Riprese vigore, affrontò i temporali d’agosto e le nevicate di gennaio, continuò a dare con regolarità munifica i suoi dolci frutti, di cui godevano esseri umani ed esseri volanti, e quando la casa e il giardino una trentina d’anni dopo furono venduti, lui era ancora là, ricco di fronde e di promesse per il palato. Era ancora bello, con quel suo grosso tronco che nella parte visibile, occhieggiando imponente tra il fogliame dei cespugli che lo circondavano, nulla lasciava intuire il travaglio passato. (Forse c’è una morale…).