«Toni questa sera è preoccupato. Molto»: mia madre, mentre si asciuga le mani nel grembiule, guarda fuori dalla finestra della cucina, a pianoterra; il suo sguardo attraversa il grande cortile in terra battuta, che quando piove diventa uno sprofondante pantano e quando il sole picchia duro si tramuta in una crosta bianchiccia che sotto i piedi si spezza come glassa. «Per Toni è un momento fondamentale, è in gioco il bilancio di un anno».
In fondo al cortile, nella luce del crepuscolo si vede la figura di Toni. È in piedi, a gambe larghe, una mano sotto il gomito dell’altro braccio e la mano di questo che tormenta il labbro inferiore. In testa ha il cappello di paglia, che mai abbandona; indossa la larga camicia a quadrettoni, i pantaloni grigi e le grosse scarpe con i rinforzi in metallo, sulla punta e sotti i tacchi. Ha la barba incolta, i capelli tagliati quasi a zero e mezzo sigaro spento tra i denti. Toni è il mezzadro. È arrivato dal Veneto, da Marostica, patria delle ciliegie. Ha una cinquantina d’anni, trasporta a spalla su per i ripidi sentieri delle prime colline biellesi fasci di fieno che lo sommergono completamente; tutte le mattine per un’interminabile ora picchia e ripicchia con il martello il filo della grande falce per mantenerlo perfettamente in linea. L’operazione si svolge nel prato, seduto a gambe divaricate sull’erba e facendo uso, come supporto su cui fare scorrere la lama, di un apposito aggeggio di ferro conficcato nel terreno.
Toni ha una moglie e sei figli, quattro femmine e due maschi, che malvolentieri lo aiutano nel feroce mestiere della collina e intanto cercano altre occupazioni, più sicure e meno faticose. Un maschio già l’ha trovata, in una fabbrica dove si tessono pezze di stoffa che andranno in mezzo mondo. Il posto glielo ha trovato mia madre. Toni è una specie di Noè alla barra di una personale arca: maiali, conigli, galline, gatti, tortore, capre, anatre, ma soprattutto mucche. Di solito tre, a volte quattro. A loro ha appiccicato nomi quali Cita, la più piccola, Balin e poi Branda, in ricordo della bottiglia di brandy scolato quando era nata. Tutte le sere c’è la processione della gente del posto che viene a comprare il latte appena munto. Arrivano con un bricco in alluminio, che con l’apposito misurino, Maria, la moglie di Toni, riempie della quantità richiesta. È l’occasione per scambiare notizie e diffondere qualche pettegolezzo.
Si è fatto buio. Mia madre torna a guardare fuori. Toni è sempre là, a qualche metro dalla stretta e bassa porta della stalla, quella che le vacche attraversano due volte al giorno, alla mattina presto e all’imbrunire, per andare a bere nella vasca di pietra riempita dal grosso e scrosciante rubinetto. Lo fanno da sole; basta liberarle dalla catena che portano al collo davanti alla mangiatoia: escono, bevono a rumorose e appaganti sorsate, poi rientrano al loro posto, dove qualcuno le sta aspettando per rimettere la catena. Tutto in un silenzio d’ovatta, senza parole, senza grida, unicamente il rumore secco degli zoccoli nel passaggio sul lastricato di pietra che precede l’uscio della stalla.
«Speriamo che non ci siano problemi»: mia madre ha acceso la luce in cucina e si appresta a buttare la pasta, perché l’acqua già bolle da un po’. Fuori Toni non è più solo. Sono arrivati gli altri, i “compari” che lo assisteranno in occasione del fondamentale evento: la nascita di un vitello. Ci sono strette di mano, pacche sulle spalle, parole tranquillizzanti, ricordi di successi memorabili e di eventi fortunati. Naturalmente c’è chi queste cose «le fa da anni e sa come ci si deve comportare», e c’è il ragazzo che starà solo a guardare perché deve imparare, ci sono gli amici il cui compito è quello di fornire assistenza soprattutto morale. I pensieri di tutti si manifestano esclusivamente sul lato positivo: guai a chi anche solo paventa la morte del nascituro e poi, magari, quella della madre.
Dall’uscio della stalla esce un rossastro alone luminoso che subito muore nell’ormai totale oscurità della notte. Ma è una notte bella, senza Luna ma piena di stelle e, nei prati sotto il muro di pietre, di lucciole. Gli uomini formano un cerchio aperto, rivolto verso la stalla. Parlano a bassa voce. Ogni tanto qualcuno entra, per poi uscire facendo segni d’assenso con il capo. In mezzo a loro il cappello di Toni spicca come un segno di autorevolezza. Il tempo scorre sempre uguale a se stesso: mezzora ? un’ora ? forse sono già due ore ?
A un tratto scattano tutti in piedi e si precipitano nella stalla. L’“uomo che sa come si fa” per primo, dietro a lui Toni. Fuori il silenzio è totale. Si ode un lieve tonfo, quindi rumore di foglie secche stropicciate, un muggito, un altro e un altro ancora. Si alzano urla di giubilo, qualche sana bestemmia, qualche bonario insulto nei riguardi dell’ospite. Gli uomini escono, uno per volta. Toni corre in cantina e ne esce con le braccia cariche di bottiglie di vino, di pane e di salame. Sarà una liberatoria sbronza.
Anche mia madre ha stappato una bottiglia. Di innocua aranciata, però. Timidamente esco e mi avvicino all’uscio della stalla. Toni mi vede e mi grida: «Vai vai, entra, guarda com’è bello!». Sbircio là dentro, in quell’antro dal quale esce una calda umidità che sa di fieno e di stallatico. Sotto le volte bombate e malamente illuminate da lampadine giallastre, vedo le mucche: sono quattro. Accanto a una di loro traballa, in piedi, a zampe larghe e collo teso e abbassato, un bianco vitellino. La madre lo sta leccando, rischiando a ogni passata di farlo ruzzolare.