Il primo ricordo che ho del mio inafferrabile zio pittore risale al suo rientro da Cuba. Io dovevo avere poco più di quindici anni. Piombò improvviso nella casa sulle colline biellesi dove stavamo trascorrendo un periodo di vacanza. Si presentò abbronzato e con la camicia rivoltata al contrario, il dentro fuori: «Non ho tempo di lavarmela e dura il doppio». Teoria indimostrabile ma affascinante. La reciproca simpatia scattò immediatamente, mentre mia madre (sua sorella) cercava disperatamente ma inutilmente di trattenerlo a cena e di lavargli la camicia. «Non ho tempo», ribatteva.
A Cuba era stato per alcuni mesi ed era tornato con schizzi, idee, entusiasmo e diffidenza nei confronti di Fidel Castro. Anni dopo avrebbe allestito una mostra di acqueforti incentrata sui lavoratori del sigaro. Le loro mani: ossute, nodose, corrose. I loro volti: scarni, impassibili, severi, dolenti. Uomini e donne. La presentazione la scrissi io, il che mi guadagnò un pranzo a base di fonduta e l’imperitura riconoscenza da parte dell’artista. Oltre alla citazione del nome e del mio contributo sull’Eco di Biella. Mio anche il titolo della mostra: Il tempo paziente.
Mio zio non era di quelli che vivevano del passato. Ricordava solo di sfuggita gli anni all’Accademia di Brera e l’urlo nella notte – «pulci nel letto!» – lanciato nel silenzio del buio per rimandare il pagamento della la pigione; e poi gli anni da partigiano dopo l’8 settembre. Era stato catturato dai fascisti e sarebbe finito in Germania se mia madre non fosse andata a scongiurare il federale di Biella, che era suo cugino, perché lo rimandasse a casa. Così fu, dietro la promessa, espressa da mia madre per conto terzi, che se ne sarebbe rimasto chiuso in casa. Due giorni dopo era di nuovo in montagna. «Ho fatto il guerriero», dirà anni dopo con ironico orgoglio, «per questo avevo successo con le ragazze». Aveva anche la testa dura, ma non abbastanza da non romperla giocando a rugby. Amava dire «signori si nasce e poveri si diventa», sette parole che erano la sintesi della sua filosofia di vita.
Mia madre sosteneva che non poteva continuare quell’esistenza da bohémienne, che alla sua età doveva accasarsi. Lui ogni momento cambiava studio e finì anche nel romito “Piazzo”, su in Biella Alta, a dominare la pianura da una grande vetrata che raggiungeva il soffitto. Un giorno andai a trovarlo e lo sorpresi che aveva appoggiato sul pavimento un suo quadro, lo aveva cosparso di alcool e ora gli stava dando fuoco: «Vediamo cosa ne viene fuori», mi disse sorridendo sornione, «al giorno d’oggi tutto nell’arte è permesso e se non fai stranate nessuno ti considera».
Girava con una scassata 500 famigliare in cui caricava tele, pennelli, colori e a volte anche una modella. Amava i bergé, gli uomini della montagna, che spesso invitava a mangiare in qualche osteria, dove veniva accolto tra ovazioni, battute e ondate di ricordi. Si interessava di tutti e per tutti aveva una parola. Mangiavano polenta arrostita, acciughe salate, formaggio stagionato, e bevevano vino rosso della casa. A volte la panissa, piatto unico di riso, fagioli e pezzetti di carne. Parlavano in dialetto.
Quando andavo a trovarlo con ragionevole preavviso, mio zio mi faceva trovare un bel pezzo di toma del macagno (la più vecchia e dall’odore pungente, mia inestinguibile passione gastronomica, che ancora oggi conserva intatto il ricordo della giovinezza) e i canestrelli, sottili biscotti di leggerissima pasta croccante con in mezzo cioccolato amaro. Poi si andava nel bar sotto i portici gestito dal suo fraterno amico Beppe, a bere “acqua del Sesia”, un aperitivo alcolico, incolore come acqua del torrente che attraversa Biella, turbato solo da una sottile sfumatura azzurrina. Si cenava all’Osteria dell’Aquila Reale: brasato se era inverno, vitello tonnato se era estate.
L’invito di mia madre a cambiar vita finalmente venne accolto. Lui era appollaiato in cima a un ponteggio intento a dipingere la volta della cappella dell’ospedale, e una giovane donna, un’operatrice del reparto riabilitazione, si fermò ammirata. «Mi vide alto, magro e bello», racconterà poi ridendo, lui che era piccolo, grasso («Ha la silhouette di un seme di zucca», osservava mio padre) e mai si era considerato bello. Finì che si sposarono, e quella giovane donna, appartenente a una antica famiglia di liutai trentini, è da molti anni mia zia. Prima della cerimonia era venuto a Milano per far conoscere la fidanzata alla sorella. Ne era orgoglioso e si vedeva.
Dopo poco più di un anno nacque la figlia: bionda con gli occhi color nocciola. Lui era al settimo cielo, travolto da una incontenibile felicità che lo rendeva più fanciullo dei fanciulli. Non era più un giovincello, tutt’altro, e credo non avesse mai sperato in una vita da padre. Mi telefonò per chiedermi di fare il padrino di battesimo. Io avevo vent’anni. Oggi quella bimba ne ha 48 e da 34 il pittore-partigiano di Biella non c’è più. (Milano, anno 2013)