Anno 1944. In un tardo pomeriggio di metà dicembre, con le ombre ormai in possesso della notte e l’umidità che attraverso oscure fessure penetrava nello sferragliante tram, unico mezzo di pubblico trasporto che, come un cordone ombelicale, unisse l’inerte città al suo “entroterra”, l’ingegnere stava raggiungendo la famiglia. Madre, moglie e figlioletto di non ancora due anni lo aspettavano. Un secondo figlio era in arrivo.
Il lavoro alla Edison si era svolto come sempre, tra falsi allarmi aerei per spesso inesistenti incursioni alleate e non sempre spiegabili sbalzi nell’erogazione dell’energia elettrica. Era più tardi del solito perché quel giorno l’ingegnere aveva anche dovuto espletare la sua funzione di responsabile del servizio antincendio compiendo un minuzioso sopralluogo attraverso i vari piani dell’austero palazzone di Foro Bonaparte.
Arrivò a destinazione senza che il tram, ben protetto dall’oscurità, fosse stato oggetto di una estemporanea mitragliata da parte di qualche velivolo di passaggio, provocando lo sparpagliamento nei campi degli ormai rassegnati passeggeri. Dopo avere respinto amichevolmente le debordanti effusioni del cane di razza incerta che in giardino fungeva da guardia, l’ingegnere si era visto venire incontro la moglie, visibilmente preoccupata. «È venuto a cercarti un soldato tedesco. Ha detto che devi recarti immediatamente al loro distretto. L’ha ripetuto più volte. Il tenente ti vuole vedere questa sera stessa». Era d’obbligo imporsi la calma: «Va bene… vado. Non c’è problema, stai tranquilla».
Lasciata la cartella sulla poltrona sovrastata dal grande orologio che batteva le ore facendo il verso al Big Ben e dopo avere accarezzato il gatto che da tempo aveva scelto il panciuto cuscino della poltrona come proprio giaciglio, l’ingegnere si inoltrò attraverso le stradine semibuie del paesotto. Lui proprio tranquillo non era. Fece mentalmente un breve esame di coscienza: alla Edison era stato buon amico di Ferruccio Parri, che ora aveva preso il nome di Fabrizio e che dopo l’8 settembre era assurto a elemento di spicco della Resistenza partigiana, dominando dall’alto la lista dei ricercati dalla Gestapo, la polizia segreta tedesca. Qualche anno prima lo stesso ingegnere aveva ricusato, facendo violenza alla propria propensione all’insegnamento, la proposta di una cattedra presso il Politecnico a causa dell’ineludibile obbligo di iscrizione al Partito Fascista. Mai era stato visto indossare la camicia nera, mai aveva partecipato a un’adunata. Tutti fatti ben noti, come pure noto era che nella villa materna, sua attuale residenza, si svolgessero regolari riunioni durante le quali la critica al regime figurava come imprescindibile argomento all’ordine del giorno. Inoltre proprio sua madre, la vedova dell’onorevole del Partito Popolare, la signora Luisa, non sapeva mai dominare un’acida ostilità nei confronti del Duce e della sua congrega. Ostilità che manifestava liberamente in strada o davanti al bancone del macellaio. C’era poi qualche vicino che aveva messo in giro la voce che in un locale del villone trovasse rifugio un aviatore inglese. Si sapeva inoltre che, là nel Biellese, suo cognato era in montagna a fare il partigiano. Tutta materia su cui meditare, un passo dopo l’altro nella penombra di quella che ormai era una notte mal rischiarata dal alcune lampade sopravvissute all’età e agli sbalzi di tensione…
I bassi edifici fiancheggianti le straducole già deserte erano avvolte da una nebbia bianchiccia. Faceva decisamente freddo e l’umidità ingrippava le ossa, ma non potevano essere accettabili giustificazioni per evitare di rispondere con sollecita ubbidienza al ripetuto “invito”. L’ingegnere trovò la via, trovò la porta e trovò il cartello con la scritta bilingue: Polizia / Polizei. Il piantone, ritto accanto al muro, lo fece entrare mormorando a fil di labbra «Bitte». Poi si eclissò dietro una porta per subito ricomparire. Di nuovo «Bitte».
Nella stanza c’erano il graduato responsabile del distretto e un soldato seduto dietro una macchina per scrivere. Il graduato, in una non irreprensibile uniforme e con un ineffabile sorriso che ne increspava le labbra, lasciò la scrivania per stringere la mano all’ingegnere. «Lei parla bene tetesco, mi tikono. Tikono anke che lei è incegnere elettroteknico». «Sì, è vero». Da quel momento, superato l’ostacolo linguistico, la conversazione si svolse senza intoppi nella solenne lingua di Goethe.
«Io sono di Monaco», spiegò il militare. «Dalle mie parti per Natale si cucina l’oca. Un’oca grassa. È un’usanza che anche in guerra e in terra straniera noi bavaresi vogliamo sempre mantenere». L’ingegnere, sorpreso, perplesso ma anche abbastanza tranquillizzato, ancora non capiva dove il tenente volesse andare a parare. «Dunque?», chiese. «Per cuocere, qui abbiamo solo un vecchio forno elettrico. Non funziona più. Ha fatto un botto e si è spento. Niente oca per Natale. Può fare qualche cosa?».
L’ingegnere sorrise. Chiese di dare un’occhiata allo strumento in avaria e scoprì che la colpa era di un fusibile che non aveva sopportato un improvviso sbalzo di tensione. Tra le cianfrusaglie che ingombravano un cassetto del furiere trovò un pezzo di filo di ferro e lo posizionò al posto del deceduto fusibile. In un’atmosfera di trepidante speranza il forno venne acceso e dimostrò di essere ancora vivo. Il menù natalizio alla bavarese era salvo. Tra militareschi «danke», l’ingegnere si avviò per rientrare a casa, non prima di avere esternato un giudizioso suggerimento: «Procuratevi un fusibile».