C’erano alberi. Alberi alti. Tanti alberi. Il colossale faggio rosso, che guardava dall’alto i tre piani della villa vincendo il confronto con la torretta che svettava sul tetto. C’erano pini di vario genere, là in fondo al giardino, a fare da schermo all’ultimo sguardo. Su uno di essi, a pochi metri dalla cima, noi avevamo costruito una piattaforma con canne di bambù, resa abitabile da un letto di rami ricchi di foglie e di spaesati insetti. Ci si rifugiava lassù per leggere, osservare i passeri di passaggio e fumare, tra tosse e lacrime, le prime sigarette. Oppure si leggeva del Corsaro Nero e di Sandokan. Spesso in quel rifugio arboreo si faceva merenda, nascosti agli sguardi del serafico contadino, il quale ben volentieri stava al gioco.
C’erano le svettanti “dita” delle eleganti tuje giganti, che con la loro sommità indicavano il cielo. Imperiose e fragili allo stesso tempo. C’era l’alberello di lillà e quello del melograno e la sagoma mozza di un vecchio pino troncato da un impietoso fulmine durante lo scatenarsi di un temporale agostano. C’erano le magnolie dalle foglie lisce e lucenti e dai carnosi fiori candidi che spandevano uno stordente profumo, dolce e soporifero. C’erano decine e decine di bambù, tanto prolifici e fitti che era impossibile passare in mezzo a loro, e tanto grossi che fungevano da alte pertiche su cui arrampicarsi fino a superare l’inarrivabile muro di cinta da dove scorgere l’orto del vicino.
C’erano i nocciòli e le prugne del Giappone, morbide come crema al miele. C’erano i larici, i maestosi alberi di alloro e le imponenti macchie di rosmarino e le rotonde masse di pungitopo dalle bacche scure. C’erano multicolori tavolozze di fiori: zinnie, margherite, ortensie, mughetti, nasturzi, rose rampicanti e a cespuglio, gelsomini, dalie, narcisi, rododendri. C’era la prorompente macchia violacea dell’albero di Giuda e i piccoli calici color arancione della buganvilla. C’era il grande prato dalle mille erbe diverse e cosparso dai bianchi piumini rotondi del tarassaco, con la sua peluria che a soffiarci sopra si disperdeva nell’aria, entrando nel naso e facendo starnutire.
C’era abbondanza di frutti: fichi verdi e fichi rossi, tre tipi di ciliegie, due di albicocche, quattro di susine, mele, pere, uvaspina, uva americana a fare da tunnel in un lungo pergolato e anche sull’ampio terrazzo sopra il salotto dove la nonna ogni pomeriggio giocava a canasta con la sua inseparabile amica, uva bianca, un’improbabile uva con gli acini a mezzaluna, ribes rosso, ribes bianco, cornioli, lazzarini, lamponi rossi e lamponi gialli, pesche, fragole, alkekengi timidamente protetti nella loro fragile teca, quasi fossero lampioncini cinesi. C’erano cachi ottobrini sui rami senza più foglie. Nel sole dell’estate di nascosto facevamo man bassa di lamponi, suscitando l’accigliato rimprovero della nonna, che da quei frutti ricavava uno sciroppo (metà lampone e metà zucchero) da offrire agli ospiti di maggior riguardo, dopo ore di lenta bollitura a fuoco di cerino nella grande cucina e, a seguire, accurata filtrazione attraverso le trame di una linda garza. C’erano piccole castagne dolcissime e noci in abbondanza, a cui si poteva levare il mallo per gustarle ancora fresche e molli come cera.
C’erano i fiori di sambuco, con i quali approntare il pan di miglio, la panigada, da gustare inzuppata con il latte o, meglio ancora, coperta da un mantello di panna. C’erano limoni e bergamotti, mai maturi ma tanto belli a vedersi. Poi la verdura: insalata, patate, rabarbaro, piselli, fagioli, topinambur, barbabietole, cavoli, zucche e zucchine, rosmarino, alloro, prezzemolo e cespugli radenti e rigogliosi di rafano da grattugiare per il lesso, incuranti delle lacrime che riempivano gli occhi. Le sue grandi foglie dopo la pioggia ospitavano decine di chiocciole strisciate alla scoperto e uscite dal nulla. Radunavamo le più grosse e le ponevamo sul tavolo di legno ancora bagnato; quello che stava nel piccolo cortile, sotto il tiglio. Qui organizzavamo estemporanee gare di corsa tra gasteropodi, lanciati verso una lontana meta rappresentata da una croccante foglia di gustosa lattuga. Le incitavamo esercitandoci nel locale dialetto con un’antica tiritera: «Lumaga lumaghit cascia foera i toeu curnit se no te maaasi». C’era l’erba di San Pietro, amarognola e ottima con le uova strapazzate, la passione di mio padre. C’era il pollaio, di mattoni e calce, sul cui tetto piatto e ospitale ci rifugiavamo con libri e cono di gelato alla crema.
C’era il giro esplorativo di notte, alla luce di una torcia elettrica e bastava un ramo spezzato pendente sopra il viottolo ghiaioso per giustificare una precipitosa ritirata. A volte al tramonto si levava il canto dell’usignolo insieme con il frastuono dei passeri alla ricerca del ramoscello su cui trascorrere la notte. C’era la quasi leggenda di un’upupa vista una sola volta mentre lanciava il suo richiamo amoroso: hup hup hup. Una nottata era stata resa memorabile da un’irripetibile aurora boreale, spintasi a sud dalle lontane pianure boschive del circolo polare. C’era stato un fulmine globulare, che attraversata la sala da pranzo era andato a spegnersi giù, nella piccola cantina, tra bottiglie di imbevibile vino e conserve di albicocche andate a male.
C’era il vecchio cane, che impazziva al rotolante rumore dei tuoni estivi, quando «il diavolo gioca alle bocce». E c’era il tetro rintocco delle campane che suonavano «a rum», per allontanare la grandine che dall’alto di un cielo di piombo minacciava i raccolti. Ogni sera la nonna, dopo avere spento il televisore dalle immagini doppie e sfocate, saliva nella camera dei nipoti per augurare la buonanotte. Aveva con sé garze, bende, disinfettante, cerotti, linimenti di vario genere e scopo, per curare gli infortuni che nel corso della giornata gli avventati ragazzini si erano procurati: graffi, tagli, contusioni, storte, punture dovute a spine o a qualche insetto ribelle.
C’era il giardino invaso da una moltitudine di animaletti: sopra la terra, sotto la terra, nell’aria. Farfalle coloratissime, scarabei, cetonie dorate, formiche, api e vespe ghiotte di uva dolce e matura, eristalidi “travestite” da vespe, cerambici, calabroni, bombi pelosi e paffuti. Tra i cespugli c’erano ragni pacifici che tessevano geometriche tele che la pioggia trasformava in gioielli di perle. Prima del calar del sole il prato si animava di decine di svolazzanti coleotteri color del grano e di notte si poteva udire chiaro e regolare il frinire dei grilli. Nelle giornate del sole infuocato erano le cicale a cantare la gioia di essere al mondo.
C’ero io che vanamente spronavo mio fratello perché giocasse al pallone, mentre lui già manifestava la propria predisposizione al quieto vivere. C’eravamo noi due, ignari del futuro e sicuri che tutto sarebbe durato in eterno. C’era il cielo: «quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello».