Era domenica mattina. Mia madre entrò nella mia stanza mentre ancora veleggiavo nell’alta marea del sonno. Il suo ingresso costituiva un fatto inconsueto. Si avvicinò alla finestra è alzò la tapparella di quel tanto che serviva a rendere visibile la camera. Quando finalmente atterrai nel mondo dei desti, mi rivolse la parola. Il problema era semplice ma importante: suo fratello, mio zio, stava per fallire con la sua piccola fabbrica di filato di lana, nel Biellese. Non ce l’aveva fatta, ma voleva salvare il salvabile: in parole concrete, dare ai suoi operai quello che loro spettava. Per farlo aveva bisogno che mia madre gli cedesse per una lira la propria parte della casa di campagna, quella che si trovava sui primi contrafforti delle colline dell’area di Biella. Mia madre aveva immediatamente acconsentito, ma a una condizione: che i suoi due figli, futuri eredi di quella proprietà, fossero d’accordo.
Io avevo 19 anni, mio fratello 21. La vecchia casa di Valle San Nicolao, frazione di Foscallo, con la cascina dove abitavano il mezzadro e la sua numerosa famiglia, la stalla, il fienile, l’orto, la vigna, i prati a rompicollo verso il torrentello giù in fondo, altri prati sparpagliati qua e là, era stata per anni il regno immaginifico delle nostre vacanze e poi il buon ritiro per leggere e studiare, dall’infanzia fino all’anno prima. L’edificio della casa padronale, la «cà dl’avucat», vantava quattrocento anni di vita, una cantina vagamente misteriosa e con una sedicente prigione, un mitico passaggio segreto al piano superiore, un salone con soffitto a cassettoni (dicevano fosse stato aula di tribunale); al primo piano, stanze da letto con soffitti a crociera decorati da scene campestri. Il bagno vantava uno scaldabagno in rame che funzionava a legna e che mia madre sapeva accendere con puntuale maestria. Il giardino, che guardava a perdita d’occhio la pianura, aveva al centro un profondo pozzo, dove calavamo il secchio con dentro meloni, formaggi, uova, salumi e altro ancora. La frutta era sugli alberi intorno. Gli animali prosperavano: mucche, capre, conigli, polli, maiali, tortore, cardellini, un cane e una tribù di gatti di inesausto turnover. Lungo la scala che portava al piano di sopra erano attaccati al muro quattro archibugi e due spade. C’era anche un “poster” che riportava la storia d’Italia, dai tempi di Roma «ai nostri giorni» (anno 1861). In sala riposava inoperoso un pianoforte verticale senza martelletti, sui cui tasti a volte passeggiava silenzioso un gatto. Al muro, tre stampe illustravano momenti di una giornata in campagna nei giorni di un secolo ormai dimenticato. Poi il ritratto a olio di un improbabile antenato, dall’aria severa e dagli occhi cattivi.
Nelle giornate più limpide si scorgeva laggiù, oltre l’ansa della pianura, la sagoma innevata del Monviso, culla del Po. Di notte si sentiva il richiamo della civetta. A volte gli occhi di una volpe ti osservavano da lontano, poi, in un secondo, era lo stendardo della sua coda che vedevi sparire tra i cespugli. In una notte di pioggia insistente ci fu una frana, che si portò via parte di un prato, quello dove si apriva una sorta di lavatoio con acque limpide e freschissime. Il lavatoio si salvò. A settembre inoltrato c’era la vendemmia. Arrivava gente dal circondario, e tra chiacchiere, canti, scherzi e sbronze (tra le tante, anche la mia prima) la cantina si riempiva dello stordente effluvio dell’uva pigiata. Avrebbe dato quel vino che, come diceva sornione mio zio, gli sarebbe valso «la perdita di molti amici». Un vino aspro e allappante. L’aceto veniva buono. Ogni tanto la postina scendeva lungo la ripida stradicciola sassosa. Dal cortile gridava la sua presenza. Una volta alla settimana seguiva la stessa pista il furgoncino dei formaggi e dei salumi. Lo sport più seguito da quelle parti non era il calcio ma il ciclismo, e le gare tra i giovanotti locali erano accanite e portatrici di mille polemiche e recriminazioni. Passava spesso, per raggiungere le case del paesucolo più in basso, un serafico ragazzone con carretto a due ruote e asinello grigio. Dipingeva quadri ingenui e coloratissimi. Accanto a lui abitava un altro ragazzo che suonava con grande impegno la tromba, senza mai progredire e senza mai desistere. Tutte le sere c’era la processione di chi veniva a comprare il latte appena munto, e la moglie del mezzadro lo distribuiva meticolosamente con un apposito misurino di leggero metallo. Spesso, di giorno, contro il cielo di cobalto si stagliava la sagoma di un rapace, che sorvolava la vallata senza un battito d’ali («è come lo spirito santo», dicevano), nel filo di un’invisibile corrente d’aria che gli permetteva improvvise cabrate. Lanciava il suo richiamo, mentre le galline correvano a rifugiarsi tra le assi del pollaio.
Quando la nebbia avanzava e una pioggia regolare e insistente cancellava il sole, si andava “a fare castagne”. Con noi c’era sempre Lilla, la cagnolina, il cui compito era quello di avvertire quando si fosse avvicinato il padrone dell’albero preso di mira. Lilla svolse con impeccabile precisione il suo compito, anche quella volta che il contadino, infuriato, da lontano sparò un colpo di fucile. In aria, credo. Le castagne si cuocevano al fuoco del camino, con la padella bucata e dal lungo manico di ferro, e poi, sbucciate, si cospargevano di zucchero e si annaffiavano di grappa, alla quale si dava fuoco. Si andava “per funghi”, ma io non ne trovai mai nemmeno uno. Ogni anno si faceva la gita per raggiungere la cima della più alta collina, visibile dal nostro cortile. Lassù c’era l’immancabile croce di legno e accanto una casuccia di sassi mezza crollata. Qualche volta ci si imbatteva in una vipera, o in un animale strisciante che poteva ricordarla. C’erano rospi e calabroni. C’era l’odore dell’erba appena tagliata, c’era l’odore del fieno che stava disteso al sole, c’era l’odore della stalla e quello dei conigli. Da ragazzini alla sera si giocava a nascondino, rifugiandoci nel fienile oppure nella mangiatoia delle rassegnate mucche. Una volta mi beccai, al buio, una involontaria cornata. C’erano i rintocchi delle campane della chiesa, dall’altra parte della vallata. C’erano ricordi che si accumulavano mano a mano che il tempo scorreva e che, con il passare degli anni, avrebbero preso i velati colori del mito della gioventù.